AMOR DI PATRIA
MANZONI E ALTRA LETTERATURA DEL RISORGIMENTO
Edizioni Interlinea, Novara (2005)
Premessa
Lo storico Alberto M. Banti ha riconosciuto alla letteratura un ruolo centrale nella creazione di un’ideologia nazionale; essa, tuttavia, non ignora anche i particolarismi, le differenze regionali, che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese. Qual è stato, dunque, il ruolo della letteratura nei convulsi anni del nostro Risorgimento? Quale il contributo da essa offerto alla causa nazionale? Il lavoro di Giuseppe Langella vuole rendere conto proprio di questi aspetti, offrendoci prima una panoramica delle opere manzoniane che hanno chiarito la sua idea di letteratura e affrontato il tema dell’unificazione e dell’indipendenza italiane, per poi – in una rapida carrellata – presentarci altri autori rappresentativi dell’età Risorgimentale.
LA CORDA CIVILE DI MANZONI
Esordi giacobini
Già a sedici anni, nel 1801, Alessandro Manzoni concepisce un poemetto, “Del trionfo della Libertà”, in cui si respira un odio viscerale contro i tiranni di ogni tempo, cui vengono contrapposti gli eroi romani dell’età repubblicana. Siamo ancora lontani dal Manzoni che lascerà a Dio il giudizio sull’operato degli uomini, qui la valutazione dei fatti è chiaramente ideologica, come dimostrano le tinte fosche con cui sono descritti i carnefici passati in rassegna. Diversi i punti di riferimento di Manzoni nella stesura di quest’opera, in particolare Vincenzo Monti; il rapporto con questa fonte, però, è particolare: da lui prende a piene mani – temi, linguaggio, forma - connotandone diversamente il senso.
“Non ti far mai servo”
Accanto al Monti, che accompagnerà Manzoni per tutto il suo tirocinio poetico, fino agli “Inni Sacri”, altro punto di riferimento centrale è Vittorio Alfieri. Non è un caso che a dominare, nel “Trionfo della Libertà”, sia la figura di Marco Bruto; come Alfieri, Manzoni adotta qui la poetica del forte sentire, vista come quella più adatta a promuovere le pubbliche virtù stimolando l’emulazione dell’atto eroico. La suggestione di Alfieri, però, va al di là di questo primo poemetto, alimentando anche il carme “In morte di Carlo Imbonati”, in particolare il decalogo morale che di esso rappresenta il vertice. Attraverso gli imperativi categorici offerti dall’Imbonati, Manzoni delinea già la sua idea di letteratura, intesa come una responsabilità gravosa, una scuola di virtù che rispecchia criticamente il reale, una meditazione sul contrasto tra il mondo com’è e come dovrebbe essere. “In morte di Carlo Imbonati”, sostanzialmente, è costruito sull’alfieriano “Del principe e delle lettere”, ricapitolandone le tesi portanti.
Scuola di virtù
Ma, nel carme anzidetto, Manzoni pone anche una pesante ipoteca sui diritti di successione a Giuseppe Parini, alla cui morte si era aperta una disputa per aggiudicarsi l’investitura a suo erede, sia come uomo che come poeta. La gara vede in lizza oltre al Manzoni Ugo Foscolo e Vincenzo Monti, ma lo scrittore milanese ha, dalla sua, la carta vincente. Imbonati, infatti, aveva avuto come precettore proprio Parini, che per l’allievo, nel 1764, aveva composto “L’educazione”. Ora, l’Imbonati che aveva fatto tesoro degli insegnamenti del suo maestro è lo stesso che, al termine del carme, passa il testimone al giovane Manzoni dettandogli quel decalogo morale di cui sopra. Questi, dunque, rivendica per sé, attraverso il compagno della madre, l’insieme dei valori e l’idea di letteratura contenute nell’”Educazione”. Se Parini ha generato un uomo così virtuoso come l’Imbonati allora la letteratura può essere, secondo l’impegno manzoniano, scola e palestra di virtù; egli intende riaffermare, dunque, il compito pedagogico della letteratura.
“Fait national” in “époque de barbarie”: il poema sulla fondazione di Venezia
Non stupisce, quindi, la decisione di Manzoni di stendere un poema epico sulla fondazione di Venezia, la cui storia si prestava a esaltare le virtù di un popolo libero, e dunque a fungere da esempio e sprone per le nuove generazioni. Un movente implicitamente civile: per il Manzoni alfieriano e antibonapartista di questi anni Venezia rappresenta il miglior simbolo di libertà e di indipendenza; tramite la letteratura egli mira ad alimentare il sogno patriottico di un popolo. Il poeta si mette al servizio di un ideale politico, assumendo come materia una vicenda che lo adombra, seppure in un lontano passato. Nonostante la consultazione dell’”Histoire des Républiques Italiennes du Moyen Age” di Simonde de Sismondi e la ricerca di altre fonti, il racconto sulle origini di Venezia risulta, però, così nebuloso che Manzoni abbandona il progetto, tuttavia il seme è gettato e, nel “Conte di Carmagnola”, il ritorno alla storia avverrà di nuovo nel segno di Venezia.
“Liberi non sarem se non siam uni”
Convulsi sono gli anni che seguono la caduta di Napoleone: con il ritorno degli Austriaci, così, nel 1815 è l’impresa – che risulterà fallimentare – di Gioacchino Murat a risvegliare gli entusiasmi patriottici e l’ispirazione poetica di Manzoni. E’ da questo nuovo sogno che nasce “Il proclama di Rimini”, destinato a vedere la luce non prima del 1848, insieme a “Marzo 1821”.
E’ altresì possibile istituire un collegamento ideale tra “Il proclama di Rimini” e l’”Adelchi”, rintracciando nel disegno concepito dal principe longobardo lo sviluppo della visione politica adombrata nel “Proclama”, scorgendo dietro il proto-Adelchi il fantasma di Gioacchino Murat. Dietro la rea progenie dell’”Adelchi” siamo autorizzati inoltre a cogliere un riferimento all’Austria della Restaurazione. Insomma, il Manzoni della seconda tragedia resta fedele a quella visione libertaria che aveva permeato di sé il giovanile “Trionfo”: dove l’individuo non è padrone di nulla, nemmeno di sé, dove la sua dignità è calpestata, non si può parlare di patria, essendone la libertà condizione fondamentale. Ad Adelchi, tragico fantasma delle speranze risorgimentali di Manzoni, questi presta la sua visione e le sue speranze, facendone un personaggio anacronistico, rappresentativo del desiderio più che delle cronache, appartenente a una storia virtuale anziché reale. In prospettiva risorgimentale il proto- Adelchi sembra il vertice dell’ideologia politica manzoniana, poiché la sua proposta per vincere la guerra prevede il pieno accordo tra sovrano e sudditi.
Implicazioni ideologiche nel primo “Carmagnola”
Il teatro manzoniano nasce proprio dalla congiuntura negativa verificatisi dopo la fucilazione di Murat; al “Conte di Carmagnola”, infatti, Manzoni mette mano dall’inizio del 1816. L’autore nella coalizione contro Filippo Maria Visconti coglie implicazioni patriottiche, rivela i suoi sentimenti italiani, feriti dal Congresso di Vienna. Oltre che sul tema della libertà il proto-“Carmagnola” concentra la riflessione anche sull’uguaglianza e la fraternità, dando così voce alle richieste di giustizia e di partecipazione dei tanti esclusi che costituivano la base sociale degli Stati.
Le buone leggi e le buone armi. Manzoni e la guerra italiana
Abbiamo già accennato anche al legame tra Manzoni e Niccolò Machiavelli; la produzione dello scrittore milanese prova una conoscenza approfondita degli scritti di quest’ultimo. In particolare, tra i consigli presenti negli scritti del fiorentino tiene in conto quelli riguardanti l’unità e l’indipendenza italiane e l’esortazione a dotarsi di milizie proprie. Manzoni, infatti, allo stesso modo di Machiavelli attribuisce all’esercito un’importanza decisiva per la dignità e sicurezza di una nazione, censurando la consuetudine di avvalersi di truppe mercenarie o di eserciti stranieri. Le milizie ausiliarie vincono per sé, solo in apparenza per chi ne ha chiesto l’intervento; emblematici, in tal senso, sono il Coro dell’atto III dell’”Adelchi” e, ancor più, il Coro dell’atto II del “Conte di Carmagnola” dove si descrive l’esito rovinoso della battaglia a causa del rapido cedere delle milizie mercenarie, non motivate da nulla di nobile se non dalla paga.
CARTE D’IDENTITA’
I “Canti italici” di Amedeo Ravina
Nonostante il silenzio calato sull’opera di questo autore non è difficile capire il successo immediato riscosso dai “Canti italici” di Amedeo Ravina. Questi versi, incitanti all’unità e all’indipendenza della nazione, che fecero di Ravina il poeta della rivoluzione piemontese del 1821, hanno avuto la funzione di spronare i patrioti e tener viva l’idea di un’insurrezione generale. Si tratta di un’opera che, nella lirica patriottica, occupa un posto particolare: Ravina, infatti, è il cronista della vigilia d’armi, quindi i suoi versi hanno la caratteristica dell’incitamento. Nelle sue terzine l’autore prende di mira la diplomazia di Metternich e denuncia la volontà dell’Austria di spegnere con la violenza quei primi tentativi di libertà con cui l’Italia cercava di scrollarsi di dosso un giogo millenario. Per esprimere il timore dei patrioti Ravina ricorre all’arma delle deformazioni espressionistiche: gli avversari dell’Italia, in particolare, subiscono delle metamorfosi peggiorative il cui scopo è privare di ogni caratteristica umana l’arrogante invasore. Anche le forze del male vengono chiamate in causa, maligne alleate della reazione, mentre Dio benedice la guerra di redenzione dei patrioti. Questo mettere in campo Dio come partigiano di una causa legittima serve per infondere sicurezza nei patrioti; una raffigurazione, quella di Dio, vetero-testamentaria, tanto che non sembrerebbe azzardato vedere un’analogia tra la condizione dell’Italia, in catene sotto gli Austriaci, e quella del popolo d’Israele, narrata in “Esodo”. Da qui, però, la conseguenza: se Dio, già una volta, ha ascoltato il lamento del suo popolo non mancherà di ascoltare anche quello degli Italiani, nuovo popolo eletto. Grazie alla discesa su di essi di uno spirito patriottico gli Italiani vengono trasformati da Ravina in una leonessa, con una dilatazione miracolosa delle loro energie. Non resta che proclamare la guerra, sì che armi un grido sol armi rimbombe: verso che riassume tutte le speranze di Ravina, poche parole ma dal significato fondamentale, in cui si concentra l’idea di una sollevazione generale e straripante di tutti gli Italiani.
L’uomo del Risorgimento. Sui “Ricordi” di Massimo d’Azeglio
Se passiamo in rassegna le tante memorie risorgimentali possiamo notare che tutte hanno uno stesso fine pedagogico; esse, infatti, lanciano un appello alle generazioni future perché raccolgano le ultime volontà di quella che ha fatto l’Italia, affinchè sia assicurata una continuità ai valori risorgimentali. Queste motivazioni sono alla base anche dei “Ricordi” di Massimo d’Azeglio, usciti postumi nel 1867; essi raccolgono i sentimenti di un uomo ormai escluso da ogni incarico di governo, ma non sono un semplice sfogo, poiché egli volge la materia autobiografica a fini di pedagogia nazionale, così da ridestare alti e nobili sentimenti. L’autore è convinto che ora che l’Italia è fatta sia necessario far gli Italiani, creare una nazione di galantuomini, cioè individui di specchiate virtù, dal forte senso civico, guidati solo dal criterio del bene degli uomini. Per conseguire il suo intento pedagogico d’Azeglio ricorre al metodo dell’exemplum, presentando una serie di personaggi esemplari, da imitare, e riservando per sé solo una funzione di cerniera, di commento. Quella che l’autore ha in mente è una società ordinata per merito e in cui chi ha responsabilità di comando sia così onesto da dimenticare il proprio tornaconto personale. Un ideale liberal-democratico che si riflette anche sul piano letterario, in un organismo testuale poliedrico, tenuto insieme attraverso lo stratagemma della civil conversazione; mai, forse, come qui la scrittura autobiografica forza il suo statuto verso un esito interlocutorio. Inoltre, per quanto concerne la lingua, anche d’Azeglio, come Manzoni, ne insegue una nazionale, ma una koinè aperta al concorso di tutti gli strati sociali e le municipalità d’Italia, rispondente quindi al suo progetto politico di unificazione nazionale.
Le piccole patrie e la grande
Abbiamo più volte parlato di patria, un termine che, ancora nell’Ottocento, non ha un’accezione univoca.
Notiamo, anzitutto, che quando Ugo Foscolo nell’”Ortis” del 1802 parla di patria si riferisce a Venezia, segno che in quel momento sopravvive ancora l’idea della piccola patria diffusasi nei secoli della frammentazione politica. Foscolo nutre forti sentimenti di italianità, ma questo non gli impedisce di descrivere uno Jacopo che, peregrinando per l’Italia, sperimenta – da profugo – la condizione di straniero in patria. Eppure Ortis non lascia l’Italia, segno di fedeltà a una patria cui si sente fortemente legato, luogo degli affetti, dove persino la morte può sopraggiungere meno temuta.
Anche nei “Promessi Sposi” sentiamo parlare di patria: per don Abbondio la patria è dove si sta bene, mentre Renzo afferma maritati che fossimo…tutto il mondo è paese: ciò significa che tutto il mondo può assumere valore di patria purchè garantisca le condizioni per vivere laboriosamente e in tranquillità. Su questo punto Manzoni mantiene la stessa idea dal tempo del “Trionfo”: lo Stato deve tutelare i diritti dei cittadini e senza libertà non si può parlare di patria; il popolo italiano, però, va educato in tale direzione e, dunque, compito specifico dell’uomo di lettere nel corso del Risorgimento è proprio generare una coscienza nazionale.
Uomini di lettere che, per i loro romanzi storici risorgimentali, guardano in particolare al Medioevo, perché caratterizzato da passioni civili e spinte libertarie; ne è un esempio “Ettore Fieramosca” di Massimo d’Azeglio. Se un aspetto manca alla storia medievale è quello nazionale, sovrastato dal culto delle piccole patrie cittadine: per introdurlo, allora, alcuni autori – come lo stesso d’Azeglio nel romanzo sopracitato - forzano un po’ la storia, prestando ai loro eroi una coscienza politica eccezionale per quel periodo. L’aspetto patriottico e la funzione pedagogica prendono il sopravvento sul vero storico e l’età dei comuni viene esaltata per il suo potenziale simbolico di tempo di libertà e virtù cittadine. E’ ciò che accade anche ne “Il Duca d’Atene” di Niccolò Tommaseo, in cui si narra di un popolo che revoca i poteri affidati a un capitano straniero, riprendendo la propria libertà; essendo in gioco la salvezza della patria gli antichi rancori e divisioni vengono accantonati. Si capisce che dietro l’episodio storico si adombra la situazione presente dell’Italia, ancora priva della propria libertà; un desiderio di libertà non solo collettivo ma anche personale, visto che molti uomini di lettere pagano un alto tributo durante le repressioni dei governi assoluti, condannati all’esilio o al carcere. Molte sono le opere abbozzate proprio in carcere, poiché scrivere – quando ogni altra azione è impedita – vuol dire continuare comunque la battaglia, testimoniando fino in fondo i propri ideali. Non solo, ricordare la propria esperienza carceraria ottiene effetti emulativi così forti – come nel caso delle “Mie prigioni” di Silvio Pellico – da danneggiare l’Austria più di una guerra; dietro la sofferenza del patriota detenuto si scorge, infatti, quella dell’intero popolo ancora in catene, che attende anch’esso la propria liberazione.
L’intento pedagogico che caratterizza la letteratura risorgimentale trova, però, il suo apice in “Cuore” di Edmondo De Amicis, estrema apologia del Risorgimento, tanto da far definire il suo autore il pedagogo ufficiale dell’Italia umbertina. Due sono le istituzioni chiamate, da De Amicis, a trasmettere ai giovani memoria e valori del Risorgimento, scuola e famiglia; ma anche l’esercito viene visto come uno dei canali principali del processo d’integrazione e di consolidamento dell’identità nazionale; non è forse casuale, in questo senso, l’assimilazione della scuola a una caserma e dell’apprendimento a una lotta contro la barbarie. Un’Italia, quella descritta dall’autore, per esempio nei racconti mensili che punteggiano il testo, che viene vista come animata da un cuore solo, capace di farle guardare con fiducia al futuro, al di là delle differenze geografiche e di classe sociale. Un’italianità, dunque, non più da dimostrare ma data ormai come verità assodata.
L’uno e il molteplice.
I popoli d’Italia
Questa lotta per l’unità, dunque, non fa dimenticare, in definitiva, la coscienza delle diversità locali; a riprova di questo abbiamo, per esempio, la similitudine dei fiumi presente in “Marzo 1821”: il Po, in cui gli altri fiumi confluiscono, diventa simbolo dell’ideale unitario, ma è un’unità ottenuta con l’aiuto di tutte le regioni italiane, ognuna delle quali, come i tanti affluenti del Po, compie un tragitto autonomo e conserva una sua identità. Le diversità regionali, un tempo motivo di debolezza, convogliate in un progetto comune diventano, dunque, risorsa per tutti.
G.V.
Lo storico Alberto M. Banti ha riconosciuto alla letteratura un ruolo centrale nella creazione di un’ideologia nazionale; essa, tuttavia, non ignora anche i particolarismi, le differenze regionali, che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese. Qual è stato, dunque, il ruolo della letteratura nei convulsi anni del nostro Risorgimento? Quale il contributo da essa offerto alla causa nazionale? Il lavoro di Giuseppe Langella vuole rendere conto proprio di questi aspetti, offrendoci prima una panoramica delle opere manzoniane che hanno chiarito la sua idea di letteratura e affrontato il tema dell’unificazione e dell’indipendenza italiane, per poi – in una rapida carrellata – presentarci altri autori rappresentativi dell’età Risorgimentale.
LA CORDA CIVILE DI MANZONI
Esordi giacobini
Già a sedici anni, nel 1801, Alessandro Manzoni concepisce un poemetto, “Del trionfo della Libertà”, in cui si respira un odio viscerale contro i tiranni di ogni tempo, cui vengono contrapposti gli eroi romani dell’età repubblicana. Siamo ancora lontani dal Manzoni che lascerà a Dio il giudizio sull’operato degli uomini, qui la valutazione dei fatti è chiaramente ideologica, come dimostrano le tinte fosche con cui sono descritti i carnefici passati in rassegna. Diversi i punti di riferimento di Manzoni nella stesura di quest’opera, in particolare Vincenzo Monti; il rapporto con questa fonte, però, è particolare: da lui prende a piene mani – temi, linguaggio, forma - connotandone diversamente il senso.
“Non ti far mai servo”
Accanto al Monti, che accompagnerà Manzoni per tutto il suo tirocinio poetico, fino agli “Inni Sacri”, altro punto di riferimento centrale è Vittorio Alfieri. Non è un caso che a dominare, nel “Trionfo della Libertà”, sia la figura di Marco Bruto; come Alfieri, Manzoni adotta qui la poetica del forte sentire, vista come quella più adatta a promuovere le pubbliche virtù stimolando l’emulazione dell’atto eroico. La suggestione di Alfieri, però, va al di là di questo primo poemetto, alimentando anche il carme “In morte di Carlo Imbonati”, in particolare il decalogo morale che di esso rappresenta il vertice. Attraverso gli imperativi categorici offerti dall’Imbonati, Manzoni delinea già la sua idea di letteratura, intesa come una responsabilità gravosa, una scuola di virtù che rispecchia criticamente il reale, una meditazione sul contrasto tra il mondo com’è e come dovrebbe essere. “In morte di Carlo Imbonati”, sostanzialmente, è costruito sull’alfieriano “Del principe e delle lettere”, ricapitolandone le tesi portanti.
Scuola di virtù
Ma, nel carme anzidetto, Manzoni pone anche una pesante ipoteca sui diritti di successione a Giuseppe Parini, alla cui morte si era aperta una disputa per aggiudicarsi l’investitura a suo erede, sia come uomo che come poeta. La gara vede in lizza oltre al Manzoni Ugo Foscolo e Vincenzo Monti, ma lo scrittore milanese ha, dalla sua, la carta vincente. Imbonati, infatti, aveva avuto come precettore proprio Parini, che per l’allievo, nel 1764, aveva composto “L’educazione”. Ora, l’Imbonati che aveva fatto tesoro degli insegnamenti del suo maestro è lo stesso che, al termine del carme, passa il testimone al giovane Manzoni dettandogli quel decalogo morale di cui sopra. Questi, dunque, rivendica per sé, attraverso il compagno della madre, l’insieme dei valori e l’idea di letteratura contenute nell’”Educazione”. Se Parini ha generato un uomo così virtuoso come l’Imbonati allora la letteratura può essere, secondo l’impegno manzoniano, scola e palestra di virtù; egli intende riaffermare, dunque, il compito pedagogico della letteratura.
“Fait national” in “époque de barbarie”: il poema sulla fondazione di Venezia
Non stupisce, quindi, la decisione di Manzoni di stendere un poema epico sulla fondazione di Venezia, la cui storia si prestava a esaltare le virtù di un popolo libero, e dunque a fungere da esempio e sprone per le nuove generazioni. Un movente implicitamente civile: per il Manzoni alfieriano e antibonapartista di questi anni Venezia rappresenta il miglior simbolo di libertà e di indipendenza; tramite la letteratura egli mira ad alimentare il sogno patriottico di un popolo. Il poeta si mette al servizio di un ideale politico, assumendo come materia una vicenda che lo adombra, seppure in un lontano passato. Nonostante la consultazione dell’”Histoire des Républiques Italiennes du Moyen Age” di Simonde de Sismondi e la ricerca di altre fonti, il racconto sulle origini di Venezia risulta, però, così nebuloso che Manzoni abbandona il progetto, tuttavia il seme è gettato e, nel “Conte di Carmagnola”, il ritorno alla storia avverrà di nuovo nel segno di Venezia.
“Liberi non sarem se non siam uni”
Convulsi sono gli anni che seguono la caduta di Napoleone: con il ritorno degli Austriaci, così, nel 1815 è l’impresa – che risulterà fallimentare – di Gioacchino Murat a risvegliare gli entusiasmi patriottici e l’ispirazione poetica di Manzoni. E’ da questo nuovo sogno che nasce “Il proclama di Rimini”, destinato a vedere la luce non prima del 1848, insieme a “Marzo 1821”.
- Anzitutto questa nuova fatica segna la definitiva adesione di Manzoni a ideali nazionali e unitari, al di là delle piccole patrie elettive dell’Alfieri.
- Inoltre la sfortunata vicenda di Murat convince Manzoni, sulla scia di Niccolò Machiavelli, che la divisione in tanti piccoli stati regionali fosse la causa principale della nostra debolezza.
E’ altresì possibile istituire un collegamento ideale tra “Il proclama di Rimini” e l’”Adelchi”, rintracciando nel disegno concepito dal principe longobardo lo sviluppo della visione politica adombrata nel “Proclama”, scorgendo dietro il proto-Adelchi il fantasma di Gioacchino Murat. Dietro la rea progenie dell’”Adelchi” siamo autorizzati inoltre a cogliere un riferimento all’Austria della Restaurazione. Insomma, il Manzoni della seconda tragedia resta fedele a quella visione libertaria che aveva permeato di sé il giovanile “Trionfo”: dove l’individuo non è padrone di nulla, nemmeno di sé, dove la sua dignità è calpestata, non si può parlare di patria, essendone la libertà condizione fondamentale. Ad Adelchi, tragico fantasma delle speranze risorgimentali di Manzoni, questi presta la sua visione e le sue speranze, facendone un personaggio anacronistico, rappresentativo del desiderio più che delle cronache, appartenente a una storia virtuale anziché reale. In prospettiva risorgimentale il proto- Adelchi sembra il vertice dell’ideologia politica manzoniana, poiché la sua proposta per vincere la guerra prevede il pieno accordo tra sovrano e sudditi.
Implicazioni ideologiche nel primo “Carmagnola”
Il teatro manzoniano nasce proprio dalla congiuntura negativa verificatisi dopo la fucilazione di Murat; al “Conte di Carmagnola”, infatti, Manzoni mette mano dall’inizio del 1816. L’autore nella coalizione contro Filippo Maria Visconti coglie implicazioni patriottiche, rivela i suoi sentimenti italiani, feriti dal Congresso di Vienna. Oltre che sul tema della libertà il proto-“Carmagnola” concentra la riflessione anche sull’uguaglianza e la fraternità, dando così voce alle richieste di giustizia e di partecipazione dei tanti esclusi che costituivano la base sociale degli Stati.
Le buone leggi e le buone armi. Manzoni e la guerra italiana
Abbiamo già accennato anche al legame tra Manzoni e Niccolò Machiavelli; la produzione dello scrittore milanese prova una conoscenza approfondita degli scritti di quest’ultimo. In particolare, tra i consigli presenti negli scritti del fiorentino tiene in conto quelli riguardanti l’unità e l’indipendenza italiane e l’esortazione a dotarsi di milizie proprie. Manzoni, infatti, allo stesso modo di Machiavelli attribuisce all’esercito un’importanza decisiva per la dignità e sicurezza di una nazione, censurando la consuetudine di avvalersi di truppe mercenarie o di eserciti stranieri. Le milizie ausiliarie vincono per sé, solo in apparenza per chi ne ha chiesto l’intervento; emblematici, in tal senso, sono il Coro dell’atto III dell’”Adelchi” e, ancor più, il Coro dell’atto II del “Conte di Carmagnola” dove si descrive l’esito rovinoso della battaglia a causa del rapido cedere delle milizie mercenarie, non motivate da nulla di nobile se non dalla paga.
CARTE D’IDENTITA’
I “Canti italici” di Amedeo Ravina
Nonostante il silenzio calato sull’opera di questo autore non è difficile capire il successo immediato riscosso dai “Canti italici” di Amedeo Ravina. Questi versi, incitanti all’unità e all’indipendenza della nazione, che fecero di Ravina il poeta della rivoluzione piemontese del 1821, hanno avuto la funzione di spronare i patrioti e tener viva l’idea di un’insurrezione generale. Si tratta di un’opera che, nella lirica patriottica, occupa un posto particolare: Ravina, infatti, è il cronista della vigilia d’armi, quindi i suoi versi hanno la caratteristica dell’incitamento. Nelle sue terzine l’autore prende di mira la diplomazia di Metternich e denuncia la volontà dell’Austria di spegnere con la violenza quei primi tentativi di libertà con cui l’Italia cercava di scrollarsi di dosso un giogo millenario. Per esprimere il timore dei patrioti Ravina ricorre all’arma delle deformazioni espressionistiche: gli avversari dell’Italia, in particolare, subiscono delle metamorfosi peggiorative il cui scopo è privare di ogni caratteristica umana l’arrogante invasore. Anche le forze del male vengono chiamate in causa, maligne alleate della reazione, mentre Dio benedice la guerra di redenzione dei patrioti. Questo mettere in campo Dio come partigiano di una causa legittima serve per infondere sicurezza nei patrioti; una raffigurazione, quella di Dio, vetero-testamentaria, tanto che non sembrerebbe azzardato vedere un’analogia tra la condizione dell’Italia, in catene sotto gli Austriaci, e quella del popolo d’Israele, narrata in “Esodo”. Da qui, però, la conseguenza: se Dio, già una volta, ha ascoltato il lamento del suo popolo non mancherà di ascoltare anche quello degli Italiani, nuovo popolo eletto. Grazie alla discesa su di essi di uno spirito patriottico gli Italiani vengono trasformati da Ravina in una leonessa, con una dilatazione miracolosa delle loro energie. Non resta che proclamare la guerra, sì che armi un grido sol armi rimbombe: verso che riassume tutte le speranze di Ravina, poche parole ma dal significato fondamentale, in cui si concentra l’idea di una sollevazione generale e straripante di tutti gli Italiani.
L’uomo del Risorgimento. Sui “Ricordi” di Massimo d’Azeglio
Se passiamo in rassegna le tante memorie risorgimentali possiamo notare che tutte hanno uno stesso fine pedagogico; esse, infatti, lanciano un appello alle generazioni future perché raccolgano le ultime volontà di quella che ha fatto l’Italia, affinchè sia assicurata una continuità ai valori risorgimentali. Queste motivazioni sono alla base anche dei “Ricordi” di Massimo d’Azeglio, usciti postumi nel 1867; essi raccolgono i sentimenti di un uomo ormai escluso da ogni incarico di governo, ma non sono un semplice sfogo, poiché egli volge la materia autobiografica a fini di pedagogia nazionale, così da ridestare alti e nobili sentimenti. L’autore è convinto che ora che l’Italia è fatta sia necessario far gli Italiani, creare una nazione di galantuomini, cioè individui di specchiate virtù, dal forte senso civico, guidati solo dal criterio del bene degli uomini. Per conseguire il suo intento pedagogico d’Azeglio ricorre al metodo dell’exemplum, presentando una serie di personaggi esemplari, da imitare, e riservando per sé solo una funzione di cerniera, di commento. Quella che l’autore ha in mente è una società ordinata per merito e in cui chi ha responsabilità di comando sia così onesto da dimenticare il proprio tornaconto personale. Un ideale liberal-democratico che si riflette anche sul piano letterario, in un organismo testuale poliedrico, tenuto insieme attraverso lo stratagemma della civil conversazione; mai, forse, come qui la scrittura autobiografica forza il suo statuto verso un esito interlocutorio. Inoltre, per quanto concerne la lingua, anche d’Azeglio, come Manzoni, ne insegue una nazionale, ma una koinè aperta al concorso di tutti gli strati sociali e le municipalità d’Italia, rispondente quindi al suo progetto politico di unificazione nazionale.
Le piccole patrie e la grande
Abbiamo più volte parlato di patria, un termine che, ancora nell’Ottocento, non ha un’accezione univoca.
Notiamo, anzitutto, che quando Ugo Foscolo nell’”Ortis” del 1802 parla di patria si riferisce a Venezia, segno che in quel momento sopravvive ancora l’idea della piccola patria diffusasi nei secoli della frammentazione politica. Foscolo nutre forti sentimenti di italianità, ma questo non gli impedisce di descrivere uno Jacopo che, peregrinando per l’Italia, sperimenta – da profugo – la condizione di straniero in patria. Eppure Ortis non lascia l’Italia, segno di fedeltà a una patria cui si sente fortemente legato, luogo degli affetti, dove persino la morte può sopraggiungere meno temuta.
Anche nei “Promessi Sposi” sentiamo parlare di patria: per don Abbondio la patria è dove si sta bene, mentre Renzo afferma maritati che fossimo…tutto il mondo è paese: ciò significa che tutto il mondo può assumere valore di patria purchè garantisca le condizioni per vivere laboriosamente e in tranquillità. Su questo punto Manzoni mantiene la stessa idea dal tempo del “Trionfo”: lo Stato deve tutelare i diritti dei cittadini e senza libertà non si può parlare di patria; il popolo italiano, però, va educato in tale direzione e, dunque, compito specifico dell’uomo di lettere nel corso del Risorgimento è proprio generare una coscienza nazionale.
Uomini di lettere che, per i loro romanzi storici risorgimentali, guardano in particolare al Medioevo, perché caratterizzato da passioni civili e spinte libertarie; ne è un esempio “Ettore Fieramosca” di Massimo d’Azeglio. Se un aspetto manca alla storia medievale è quello nazionale, sovrastato dal culto delle piccole patrie cittadine: per introdurlo, allora, alcuni autori – come lo stesso d’Azeglio nel romanzo sopracitato - forzano un po’ la storia, prestando ai loro eroi una coscienza politica eccezionale per quel periodo. L’aspetto patriottico e la funzione pedagogica prendono il sopravvento sul vero storico e l’età dei comuni viene esaltata per il suo potenziale simbolico di tempo di libertà e virtù cittadine. E’ ciò che accade anche ne “Il Duca d’Atene” di Niccolò Tommaseo, in cui si narra di un popolo che revoca i poteri affidati a un capitano straniero, riprendendo la propria libertà; essendo in gioco la salvezza della patria gli antichi rancori e divisioni vengono accantonati. Si capisce che dietro l’episodio storico si adombra la situazione presente dell’Italia, ancora priva della propria libertà; un desiderio di libertà non solo collettivo ma anche personale, visto che molti uomini di lettere pagano un alto tributo durante le repressioni dei governi assoluti, condannati all’esilio o al carcere. Molte sono le opere abbozzate proprio in carcere, poiché scrivere – quando ogni altra azione è impedita – vuol dire continuare comunque la battaglia, testimoniando fino in fondo i propri ideali. Non solo, ricordare la propria esperienza carceraria ottiene effetti emulativi così forti – come nel caso delle “Mie prigioni” di Silvio Pellico – da danneggiare l’Austria più di una guerra; dietro la sofferenza del patriota detenuto si scorge, infatti, quella dell’intero popolo ancora in catene, che attende anch’esso la propria liberazione.
L’intento pedagogico che caratterizza la letteratura risorgimentale trova, però, il suo apice in “Cuore” di Edmondo De Amicis, estrema apologia del Risorgimento, tanto da far definire il suo autore il pedagogo ufficiale dell’Italia umbertina. Due sono le istituzioni chiamate, da De Amicis, a trasmettere ai giovani memoria e valori del Risorgimento, scuola e famiglia; ma anche l’esercito viene visto come uno dei canali principali del processo d’integrazione e di consolidamento dell’identità nazionale; non è forse casuale, in questo senso, l’assimilazione della scuola a una caserma e dell’apprendimento a una lotta contro la barbarie. Un’Italia, quella descritta dall’autore, per esempio nei racconti mensili che punteggiano il testo, che viene vista come animata da un cuore solo, capace di farle guardare con fiducia al futuro, al di là delle differenze geografiche e di classe sociale. Un’italianità, dunque, non più da dimostrare ma data ormai come verità assodata.
L’uno e il molteplice.
I popoli d’Italia
Questa lotta per l’unità, dunque, non fa dimenticare, in definitiva, la coscienza delle diversità locali; a riprova di questo abbiamo, per esempio, la similitudine dei fiumi presente in “Marzo 1821”: il Po, in cui gli altri fiumi confluiscono, diventa simbolo dell’ideale unitario, ma è un’unità ottenuta con l’aiuto di tutte le regioni italiane, ognuna delle quali, come i tanti affluenti del Po, compie un tragitto autonomo e conserva una sua identità. Le diversità regionali, un tempo motivo di debolezza, convogliate in un progetto comune diventano, dunque, risorsa per tutti.
G.V.