Da Firenze all'Europa. Studi sul Novecento letterario
Edizioni Vita e Pensiero (1989)
Un libro che rispecchia l’immensa cultura dell’autore. Una sfida per il lettore iniziarlo, una conquista continuarlo, una soddisfazione, che ti fa sentire come dopo aver raggiunto la cima del più alto monte, terminarlo.
Nelle quasi trecento pagine di questo testo, suddiviso in cinque capitoli, Giuseppe Langella riesce a far toccare con mano il fermento culturale presente a Firenze a inizio Novecento, città aperta all’Europa grazie al contributo di autori e critici provenienti da ogni parte d’Italia (triestini, siciliani, lombardi…), senza i quali essa non avrebbe potuto spingersi così avanti nel dialogo con la cultura Europea.
Vorremmo guidare il lettore con alcune indicazioni di contenuto, ma senza spingerci troppo oltre, per lasciare a chi vorrà accostarsi a quest’opera il piacere di scoprirla poco a poco, assaporando la vitalità culturale di quella città che è stata capitale della letteratura italiana almeno sino all’altezza della seconda guerra mondiale.
Ripercorriamo allora brevemente i cinque capitoli che compongono il testo.
L’alternativa a Croce. Carducciani, umanisti e moralisti vociani
I primi anni del Novecento vedono, in campo letterario, un grande fermento sul piano della produzione e della critica. Il desiderio comune, espresso da più parti, è quello di superare l’aridità del sistema crociano, ma le proposte e i risultati cui si giunge sono diversi e talora contraddittori. Alcuni, come i membri delle “Cronache Letterarie” vedono come alternativa a Croce l’opera di Carducci, altri (es. Slataper o Cecchi) limitano il valore dell’opera di quest’ultimo, ricercando una poesia che sgorghi spontanea dal sentimento dell’autore, altri ancora (es. Prezzolini) levano la propria voce in difesa di Croce o si muovono, come Serra, tra Croce e Carducci, sostenendo per alcuni aspetti quest’ultimo, ma riandando poi a Croce per altri, sia per un “debito affettivo” nei suoi confronti sia alla ricerca di una propria autonomia di pensiero, non debitrice verso le posizioni di altri.
Sono soprattutto Cecchi e Boine, in tal senso, a farsi interpreti di una generazione alla ricerca di una poesia nuova, sia sul piano del contenuto che su quello formale, lontana dalle forme tradizionali e quindi lontana sia da Croce che da Carducci. Una poesia ancora acerba ma che darà i suoi frutti migliori con autori del calibro, per fare un nome su tutti, di Giuseppe Ungaretti.
La prima “Voce” e le autobiografie intellettuali
Al fermento culturale di quegli anni contribuisce in modo determinante anche la “Voce”, in particolare quella di Prezzolini. E’ possibile, infatti, individuare per essa due stagioni, quella sotto la direzione del sopracitato Prezzolini e quella – all’altezza della guerra di Libia – sotto la direzione di Papini. Se la prima “Voce” è quella dell’eclettismo, della ricerca di un nuovo spazio per la cultura e per l’intellettuale all’interno di una società in trasformazione, luogo d’incontro – e poi di scontro – di uomini e idee profondamente diversi, la seconda “Voce” è quella del disorientamento e del ripensamento degli anni precedenti, dell’esame di coscienza che porterà a originali e sempre impegnate autobiografie intellettuali, come quelle di Slataper e dello stesso Papini.
L’avanguardia fiorentina e l’equivoco futurista
Intorno al 1915, nella cornice di quello che può essere definito come un incontro-scontro col Futurismo, un’altra voce si leva a Firenze nel dibattito culturale di quegli anni; l’esperienza della “Voce, infatti, non resta isolata, anzi dà i propri frutti attraverso un altro prodotto tutto fiorentino, “Lacerba”, che vede protagonista ancora Papini, affiancato da nomi come Soffici e Palazzeschi. “Lacerba” può essere vista come la traduzione concreta, militante, di quel “cinico eroismo” maturato durante il periodo vociano, benché – ancora una volta- allo spirito demolitore di molti intellettuali del tempo, anche dei lacerbiani, non si riesca a far seguire altro che il rifugio nella letteratura, ultimo spazio a disposizione per l’intellettuale di primo Novecento, ma anche triste riconoscimento della sua sconfitta.
Davanti a una realtà che appare sempre più tragica cifre dominanti del lavoro lacerbiano diventano l’originalità, la sperimentazione, l’”anarchia” espressiva, il grottesco, vale a dire il capovolgimento ironico di quella stessa realtà (come ben rappresentato da Palazzeschi).
Il romanzo a una svolta: “Solaria” e dintorni
Gli anni Venti e Trenta del Novecento vedono non solo un ampio dibattito attorno al ruolo del letterato e alla funzione della poesia (cfr capitolo seguente) ma anche una discussione serrata intorno al nuovo modello di romanzo da offrire alle giovani generazioni di scrittori. In questo dibattito – influenzato anche dalla visione dell’esistenza dei partecipanti – si contrappongono fondamentalmente due linee di pensiero, l’una di chi guarda – come i Solariani – ai nuovi “prodotti” europei, al romanzo analitico, e quindi a Proust, Gide, Joyce, per limitarci solo ad alcuni nomi, l’altra di chi, come per esempio Titta Rosa, guarda alla tradizione italiana, riallacciandosi a Manzoni e criticando il culto dei Solariani verso gli autori stranieri. Quella che si afferma, a livello europeo, in questi anni a cavallo tra le due guerre, è una letteratura della crisi, con al centro personaggi mutevoli come il fluire stesso della vita, eterni adolescenti, perché proprio l’adolescenza diventa simbolo – con le sue ribellioni, i suoi sogni che spesso restano tali, i suoi difetti – di una società in crisi e di quello che resta di un uomo sempre più ripiegato su se stesso, egoista, incapace di opporsi al male anche laddove riesce a riconoscerlo. E’ proprio in questo filone della letteratura della crisi che i Solariani danno visibilità – meritata – a nomi finalmente italiani, uno su tutti Italo Svevo.
Maritain, Bo, Betocchi. Il dibattito sulla poesia negli anni Trenta
E’ questo il capitolo più denso e forse più ostico da affrontare, ma che ci rivela una volta in più come, soprattutto in quegli anni, la produzione di testi poetici non sia solo pura ricerca formale, del “bello” scrivere, ma tocchi la vita stessa, anche di fede, dei loro autori e la possibilità o meno, tramite il testo poetico, di giungere a Verità più alte.
Il dibattito intorno alla poesia, iniziato nei primi anni del Novecento, prosegue e si intensifica negli anni Trenta, arricchendosi – in particolare – del contributo delle voci di Bo e Betocchi.
Nel 1934 e poi nel 1938 sulle pagine del “Frontespizio” compaiono due contributi di Bo, l’articolo “Riconoscenza alla poesia” e quello che sarà il manifesto dell’Ermetismo, “Letteratura come vita”. Prendendo le mosse da Maritain egli attribuisce alla poesia una capacità conoscitiva, di illuminazione dell’essere, affermando – con i coniugi francesi – che “poesia è ontologia”.
Dalle pagine del “Frontespizio” altre voci si levano a sostegno delle risorse ontologiche della poesia, tra cui quella di Betocchi, ma questo non deve far pensare a un’identità di vedute, poiché emergono sia posizioni diversificate sia ripensamenti in seno ad uno stesso letterato. Esemplare è proprio il percorso di Betocchi: sostenitore prima convinto di una poesia consolatrice, arriva, in seguito, a sottoporre a revisione il fine consolatorio e la catarsi poetica, per poi cercare, nuovamente, un appiglio grazie al quale rilanciare la poesia consolatrice da cui aveva preso le mosse. Tutto questo in un continuo incontro-scontro con Bo e con gli Ermetici, anch’essi alla ricerca di quella “forma ultima e assoluta di sé stessi” che è, per essi, la poesia.
G.V.