Il tempo cristallizzato.
Introduzione al testamento letterario di Svevo
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995
Leggendo questa densa monografia, il lettore potrà rendersi conto, una volta in più, della profondità di pensiero di Italo Svevo, tanto da poter sostenere che la conoscenza dello scrittore triestino sarebbe parziale senza l’incontro col suo quarto romanzo, Il vegliardo, un vero e proprio testamento letterario consegnatoci prima della morte improvvisa.
Di quest’opera incompiuta, Svevo ha lasciato due prefazioni, alcuni capitoli e numerosi frammenti. Si tratta, dunque, di un’opera in fieri che via via è andata deviando dal progetto originario. Svevo parte con un’idea per poi rendersi conto, a un certo punto, di aver imboccato un vicolo cieco; a quel punto concepisce un nuovo progetto e ne inizia la stesura, interrotta dalla morte accidentale. Proprio in merito alla redazione del testo è stato Bruno Maier ad aver aperto la strada a un esame filologico del Vegliardo, sostenendo l’anteriorità della sequenza Un contratto à Prefazione à Il mio ozio rispetto a quella che va dalle Confessioni del vegliardo a Umbertino. Ma, nota Langella, rispetto a Un contratto il principio delle Confessioni ha agganci più consistenti con l’ultimo capitolo della Coscienza, non solo perché ritroviamo lo stesso criterio di datazione diaristica dei frammenti ma anche per la volontà di riprendere la narrazione interrotta, richiamando temi salienti della conclusione della Coscienza.
Nel percorso dal primo al secondo Vegliardo, cui abbiamo accennato poc’anzi, il punto di fuga dall’impianto iniziale si situa, secondo Langella, all’altezza del Mio ozio. Svevo aveva impostato il suo quarto romanzo come “tempo ultimo”, “calmo”, privo di avvenimenti, diario di un vecchio messo da parte, perciò aveva dovuto spostare l’attenzione sugli altri personaggi; ma, così facendo, non avrebbe potuto procedere per molto. Senza “giornate campali”, infatti, Zeno non avrebbe potuto alimentare il suo “raccoglimento”, all’origine della nuova scrittura. Ciò che premeva a Svevo era far luce sulla condizione del vecchio nel mondo contemporaneo, ma nel primo Vegliardo questa problematica veniva soffocata dalle vicende dei “giovani”. A quel punto la scrittura si riorienta: dal “tempo ultimo” della prima redazione si passa a un “tempo misto”, che consente a Zeno di muoversi con più libertà tra il presente della “rassegnazione” e il passato della “protesta”. Sulla base di questi elementi è possibile sostenere che i tronconi narrativi del quarto romanzo andrebbero disposti in questa sequenza: Le confessioni del vegliardo à Umbertino à Il mio ozio à Prefazione (II) à Un contratto, con i primi due blocchi a costituire Il Vegliardo I e i rimanenti Il Vegliardo II.
A questo punto è lecito domandarsi, seguendo questa seconda articolazione, quale avrebbe dovuto, o potuto, essere per Svevo il seguito del romanzo. Un contratto e Il mio ozio suggeriscono, forse, una soluzione, anche se, come tiene a sottolineare Langella, non si può andare oltre la semplice congettura: essi sarebbero i primi due capitoli di un romanzo che avrebbe dovuto affrontare i grandi nodi della vecchiaia nella società contemporanea, in ideale contraddittorio col De senectute di Cicerone: è un fatto che i due capitoli del Vegliardo II combaciano proprio con i primi due del dialogo ciceroniano.
Lasciamo, ora, gli aspetti redazionali del testo, per focalizzarci sul contenuto e sui suoi molteplici significati. Nel Vegliardo appare chiaro che l’autobiografia preserva i nostri atti dall’oblio; in esso si rivela la determinazione ad “intendere meglio” che accompagna il fissaggio dei ricordi. È, però, nella seconda Prefazione che abbiamo una vera formulazione d’intenti: alla preoccupazione di conservare vissuti ed esperienze si unisce quella di decifrarli, di ricavare da essi il succo di verità. Dare un senso alla vita: ecco la funzione primaria che Svevo assegna alla scrittura del vegliardo. Contemplando, la coscienza conosce, non cambia le carte in tavola, ma le dispone in modo da renderle comprensibili. Anche se viene compiuta una cernita preliminare della materia, la “sincerità” è, come precisato da Giacomo Debenedetti, uno dei postulati della poetica del Vegliardo.
Da quanto sopra esposto deriva un’altra conseguenza: puntando a un’esposizione ragionata di alcuni frangenti della vita, non si poteva sfuggire a un effetto di “cristallizzazione” dei fatti, ma qui il termine “cristallizzare” acquista un valore positivo, poiché la scrittura sottrae la vita, o almeno una parte di essa, alla signoria del tempo e, da ultimo, alla morte. Rivedere la vita attraverso il “cristallo” del raccoglimento è anche l’unico sistema per conoscerla in modo oggettivo, al di là delle deformazioni prodotte dal coinvolgimento emotivo; senza distacco, infatti, non c’è conoscenza, convinzione esposta metaforicamente nella scena del fabbro ferraio, con cui culmina la riflessione della seconda Prefazione. Quello della “cristallizzazione” è un processo che stabilisce una linea di demarcazione netta tra il presente e il passato, poiché si può intendere lucidamente solo ciò che è passato, solo il ricordo. La vicenda del suo forzato allontanamento dagli affari, ricordata in Un contratto, mostra l’esattezza imparziale con cui il vegliardo può finalmente rileggere, oggi, l’episodio forse più mortificante della sua vecchiaia, cioè il contratto che lo condannava alla quiescenza; nell’atto di “cristallizzare” Zeno conquista l’oggettività, confessa il vero, riconosce la sua inferiorità e sconfitta. Perché sia intellegibile, l’esperienza va rievocata allo stato di cristallo, non di magma; esperienza e scrittura non possono essere consecutive, in mezzo deve esserci un intervallo, almeno psicologico. È il “tempo misto” di cui parla Svevo nella seconda Prefazione, il tempo della memoria, che viene a incrociarsi col tempo dell’esperienza: “misto” quanto ai vissuti – trattenuti dalla memoria – ma non quanto al sentimento, perché la vita non si ricorda con lo stesso sentimento di quando il fatto è accaduto.
La memoria, dunque, svolge una funzione “attiva”, agli antipodi della memoria involontaria di Proust; Svevo si affida, infatti, a un intenzionale raccoglimento, i suoi “restauri” procedono per “contiguità”, sulla base delle annotazioni precedentemente effettuate, secondo il metodo della “rammemorazione a catena”. Al tempo “ritrovato” di Proust, Svevo oppone il tempo “cristallizzato”, è prioritario veder chiaro nei fatti senza aspettare di scoprirne l’essenza accidentalmente; per questo lo Zeno vegliardo si affretta, con la scrittura, a mettere in salvo tutto ciò su cui il tempo non ha ancora esercitato la sua azione centrifuga.
Tuttavia l’autonomia di visione nei confronti di Proust non toglie che la lettura di quest’ultimo abbia avuto ripercussioni sulla genesi del Vegliardo, specie sulla seconda Prefazione, dove si registra un alto numero di reminiscenze proustiane. C’è una pagina, in particolare, del Tempo ritrovato in cui si può riconoscere la cellula da cui sarebbero derivati Il mio ozio e l’incipit del secondo Vegliardo, la sequenza dell’agnizione sbagliata della “leggiadra fanciulla”; però, a differenza di Proust, Svevo conferisce il primato alla realtà, non al ricordo, preannunciando quello che sarà il fine ultimo del “raccoglimento” letterario del vegliardo, vale a dire una migliore comprensione della condizione attuale di Zeno. Il ricordo è piegato alle esigenze del momento, la “cristallizzazione” non deve far perdere di vista la centralità del presente; a Zeno, infatti, importa più vivere che ri-vivere e Svevo, tramite l’immagine della fanciulla, enuncia quello che sarà il grande motivo conduttore del romanzo: la vecchiaia come condizione negata alla vita.
Quello che Zeno sta vivendo è il suo “tempo ultimo”, non può scongiurare il pericolo della morte, ma può mettere in pace la coscienza facendo tutto il necessario per la sua sopravvivenza, tant’è che Il mio ozio è la trascrizione, onesta, di questa paura della morte e delle pratiche igieniche per esorcizzarla. Anche nei contatti con Felicita, la giovane amante che Zeno si procura, il protagonista si prefigge solo di tenere lontano da sé lo spettro della morte, così che anche l’amore è piegato solo a una funzione di profilassi. Questo tema delle pratiche igieniche s’incrocia poi, nel medesimo capitolo, con quello dell’economia politica; infatti Zeno, per accedere all’amore, può solo comprarlo: il denaro è all’origine di questo rapporto e aleggia su di esso; si tratta di uno scambio di averi (la gioventù per la ricchezza) in cui non c’è posto per i sentimenti. Ma è un’avventura che acquista, per Zeno, anche un valore pedagogico, tanto che Il mio ozio può essere considerato come una “piccola educazione sentimentale” che dà a Zeno una coscienza definitiva dell’età cui è giunto. Un’avventura dannosa per il portafoglio, ma anche per la salute, poiché, se assunta in quantità eccessiva, la cura dell’amore poteva diventare nociva: ci è qui offerto il contributo più interessante dell’ultimo Svevo in materia di salute, vale a dire la riflessione intorno alla “legge dell’equilibrio” tra i vari organi, equilibrio in realtà inesistente, ma che a Svevo importa, anzitutto, come criterio morale, come quel “conato al meglio” che ha percorso l’intera vita di Zeno. L’obiettivo di quest’ultimo resta, infatti, sempre lo stesso: inseguire una condizione ottimale di vita, quella che gli economisti definirebbero la “massimizzazione degli utili”. Diventa chiara, allora, la decisione di ridimensionare il capitolo “amore”, la funzione riproduttiva, rinunciando alle dosi tossiche di Felicita.
Spostiamoci, ora, sull’analisi semantica del titolo, Il vegliardo, che ci condurrà sino al senso più profondo di questo quarto capolavoro di Svevo. Sulla scelta del titolo – che in origine avrebbe dovuto essere Il vecchione – può darsi abbia influito Il tempo ritrovato con la sfilata dei decrepiti “vieillards” di palazzo Guermantes; tuttavia l’italiano “vegliardo” non traduce alla lettera il francese “vieillard”, che non distingue, come invece l’italiano, tra “vecchio”, “vegliardo” o “vecchione”, per cui la scelta di Svevo indicherebbe per il protagonista una condizione specifica. Soffermiamoci, allora, sull’età del “vegliardo”: Zeno ha esattamente settant’anni e l’insistenza su questo dato anagrafico non può essere involontaria; è un’età simbolica, cui si lega la sensazione che, per lo Svevo del quarto romanzo, “vegliardi” si diventi, appunto, a settant’anni. “Vegliardo” è l’uomo giunto al termine del suo soggiorno terreno, che vive il suo “tempo ultimo”, “mutilato” di una prospettiva essenziale come il futuro; un tempo, quello “ultimo” che, per Svevo, è la stagione del raccoglimento. Ma perché proprio settant’anni? La spiegazione va cercata, in primis, nell’opera dantesca, da Inf. I 1 a Conv. IV 23-28. Non a caso già ad Emilio Brentani, trentacinquenne, Svevo aveva attribuito un’età che lo collocava “nel mezzo del cammin di nostra vita” e Zeno ha esattamente il doppio degli anni di Emilio, quanti ne servono, secondo Dante, per passare dalla “senettute” al “senio”, cioè all’“ultima etade”. Il “senio” costituisce una specie di vita postuma, o sospesa, così come “il principio de la vita” nel grembo materno contrassegna una sorta di limbo.
Anche nel capitolo su Umbertino è possibile rilevare questa ruminazione del Convivio, che fa luce su una frase apparentemente oscura: “E tuttavia davvero io credo che amo tanto Umbertino perché è tuttavia fuori dell’età”: le due estremità della vita – il “principio” e il “senio” – erano fuori dalle età di cui Dante aveva determinato la durata. A questo punto, di conseguenza, anche il rapporto tra Zeno e Umbertino – su cui torneremo – recherebbe un’impronta “conviviale”, proprio per la comune condizione “fuori dell’età”.
Tornando, però, alla parola “vegliardo”, oltre a Proust si possono riconoscere anche reminiscenze italiane: pensiamo al coro manzoniano del Carmagnola, ma anche alla novella di Natan del Boccaccio, sorta di apologo in onore della vecchiaia, di cui celebra la superiorità, almeno in fatto di virtù, rispetto alla giovinezza. L’opposizione tra vecchiaia e gioventù era un “topos” letterario accreditato da una tradizione ricca e illustre, ma Svevo – attento a captare i segnali di mutamento della borghesia urbana – avverte che ormai il “vegliardo” non ha più una posizione di preminenza, anzi deve subire la derisione dei giovani. Già nel preambolo del primo Vegliardo Zeno aveva ammesso che la conseguenza principale del suo ingresso nella vecchiaia era stata di farlo “entrare nell’ombra”, metafora ripresa dal Re Lear e già presente anche nella Coscienza di Zeno. Ma Re Lear è anche la tragedia del vincolo spezzato tra padri e figli, dell’incomprensione, e un’eco di questa tragedia si avverte nel primo Vegliardo: come già il vecchio Cosini, anche Zeno sconta un’inadeguatezza a esercitare la sua funzione paterna, la parola chiarificatrice non viene pronunciata, si accumula solo rancore, e così il mito pascoliano del “nido” si fa sempre più lontano.
Quello della solitudine, che qui viene toccato, è un altro tema canonico della cultura moderna, ma le radici ebraiche di Svevo gli conferiscono una caratterizzazione particolare, poiché essa viene vissuta solo sull’asse della discendenza maschile, quindi nei confronti di Alfio. Nel Vegliardo prioritaria diventa la sopravvivenza del padre nei figli, la trasmissione delle “impronte di famiglia”. Ecco perché la notevole diversità che all’inizio Zeno registra tra sé e Alfio lo getta nello sconforto. Tuttavia il computo dei pregi e dei difetti che Antonia ha ereditato dai genitori dispone Zeno a rivedere le sue prime conclusioni sul conto di Alfio e, questa, sarà una delle conquiste più importanti del suo raccoglimento. Se, però, nei figli sopravvivono solo “i più gravi difetti” – altra riflessione nata prendendo “in esame” la figlia – non è in questa direzione che può essere soddisfatto il desiderio del vegliardo di trionfare sulla morte.
Per fare questo, Zeno imboccherà un’altra strada, in compagnia del piccolo nipote. L’intesa che scatta tra i due è all’insegna della marginalità anagrafica, che colloca entrambi nella posizione privilegiata di osservatori esterni alla lotta del mondo. Il loro è un occhio interiore che vede alla maniera dei poeti, cioè non le cose ma attraverso le cose. L’oggetto che più attira la curiosità di Umbertino e del nonno è la ferrovia; il treno, come metafora della vita, non è immagine nuova in Svevo, ma qui l’interesse di Umbertino si concentra soprattutto sulle rotaie che si perdono in un punto lontano. Si tratta di un passo del testo problematico e metafisico, tale è l’unico binario di cui nonno e nipote cercano di scoprire “il principio e la fine”, partenza e arrivo di un viaggio che si ripete sempre uguale, metafora dell’itinerario stesso della vita.
Da qui, però, un’importante conseguenza: se il traguardo viene a coincidere con la partenza, vuol dire che ogni convoglio, cioè ogni uomo, segue un tracciato circolare e questo spiega l’affinità che lega vecchi e bambini. A designare, poi, la morte che inghiotte la vita, ecco l’uso di un’altra immagine: la galleria, metafora del sepolcro. Proprio attraverso questa immagine e una fitta serie di rimandi biblici, soprattutto all’Apocalisse, per i quali Langella parla di “filigrana apocalittica”, è introdotta una prospettiva nuova su quel “mistero della morte” cui Zeno da tani anni aveva “pensato ogni giorno”. Quella di una “seconda vita” era un’eventualità che Svevo andava considerando attentamente. Determinante, nel passo di Umbertino collazionato con Ap. XXI, è l’idea del risveglio, con il “mattino” che è proprio immagine della risurrezione. Se il “buco” nero che inghiotte il treno della vita rappresenta il sepolcro, la locomotiva che ne esce è metafora del trionfo sulla morte.
Dunque all’infanzia come alla vecchiaia l’ultimo Svevo assegna la prerogativa della conoscenza profonda e il silenzio di Umbertino e di Zeno non è di resa, ma serve ad avvolgere di pudore ciò che è sacro e ineffabile, un silenzio pieno d’intelligenza, di chi “vede” oltre, di chi “intende e indovina tutto”.
G.V.
Di quest’opera incompiuta, Svevo ha lasciato due prefazioni, alcuni capitoli e numerosi frammenti. Si tratta, dunque, di un’opera in fieri che via via è andata deviando dal progetto originario. Svevo parte con un’idea per poi rendersi conto, a un certo punto, di aver imboccato un vicolo cieco; a quel punto concepisce un nuovo progetto e ne inizia la stesura, interrotta dalla morte accidentale. Proprio in merito alla redazione del testo è stato Bruno Maier ad aver aperto la strada a un esame filologico del Vegliardo, sostenendo l’anteriorità della sequenza Un contratto à Prefazione à Il mio ozio rispetto a quella che va dalle Confessioni del vegliardo a Umbertino. Ma, nota Langella, rispetto a Un contratto il principio delle Confessioni ha agganci più consistenti con l’ultimo capitolo della Coscienza, non solo perché ritroviamo lo stesso criterio di datazione diaristica dei frammenti ma anche per la volontà di riprendere la narrazione interrotta, richiamando temi salienti della conclusione della Coscienza.
Nel percorso dal primo al secondo Vegliardo, cui abbiamo accennato poc’anzi, il punto di fuga dall’impianto iniziale si situa, secondo Langella, all’altezza del Mio ozio. Svevo aveva impostato il suo quarto romanzo come “tempo ultimo”, “calmo”, privo di avvenimenti, diario di un vecchio messo da parte, perciò aveva dovuto spostare l’attenzione sugli altri personaggi; ma, così facendo, non avrebbe potuto procedere per molto. Senza “giornate campali”, infatti, Zeno non avrebbe potuto alimentare il suo “raccoglimento”, all’origine della nuova scrittura. Ciò che premeva a Svevo era far luce sulla condizione del vecchio nel mondo contemporaneo, ma nel primo Vegliardo questa problematica veniva soffocata dalle vicende dei “giovani”. A quel punto la scrittura si riorienta: dal “tempo ultimo” della prima redazione si passa a un “tempo misto”, che consente a Zeno di muoversi con più libertà tra il presente della “rassegnazione” e il passato della “protesta”. Sulla base di questi elementi è possibile sostenere che i tronconi narrativi del quarto romanzo andrebbero disposti in questa sequenza: Le confessioni del vegliardo à Umbertino à Il mio ozio à Prefazione (II) à Un contratto, con i primi due blocchi a costituire Il Vegliardo I e i rimanenti Il Vegliardo II.
A questo punto è lecito domandarsi, seguendo questa seconda articolazione, quale avrebbe dovuto, o potuto, essere per Svevo il seguito del romanzo. Un contratto e Il mio ozio suggeriscono, forse, una soluzione, anche se, come tiene a sottolineare Langella, non si può andare oltre la semplice congettura: essi sarebbero i primi due capitoli di un romanzo che avrebbe dovuto affrontare i grandi nodi della vecchiaia nella società contemporanea, in ideale contraddittorio col De senectute di Cicerone: è un fatto che i due capitoli del Vegliardo II combaciano proprio con i primi due del dialogo ciceroniano.
Lasciamo, ora, gli aspetti redazionali del testo, per focalizzarci sul contenuto e sui suoi molteplici significati. Nel Vegliardo appare chiaro che l’autobiografia preserva i nostri atti dall’oblio; in esso si rivela la determinazione ad “intendere meglio” che accompagna il fissaggio dei ricordi. È, però, nella seconda Prefazione che abbiamo una vera formulazione d’intenti: alla preoccupazione di conservare vissuti ed esperienze si unisce quella di decifrarli, di ricavare da essi il succo di verità. Dare un senso alla vita: ecco la funzione primaria che Svevo assegna alla scrittura del vegliardo. Contemplando, la coscienza conosce, non cambia le carte in tavola, ma le dispone in modo da renderle comprensibili. Anche se viene compiuta una cernita preliminare della materia, la “sincerità” è, come precisato da Giacomo Debenedetti, uno dei postulati della poetica del Vegliardo.
Da quanto sopra esposto deriva un’altra conseguenza: puntando a un’esposizione ragionata di alcuni frangenti della vita, non si poteva sfuggire a un effetto di “cristallizzazione” dei fatti, ma qui il termine “cristallizzare” acquista un valore positivo, poiché la scrittura sottrae la vita, o almeno una parte di essa, alla signoria del tempo e, da ultimo, alla morte. Rivedere la vita attraverso il “cristallo” del raccoglimento è anche l’unico sistema per conoscerla in modo oggettivo, al di là delle deformazioni prodotte dal coinvolgimento emotivo; senza distacco, infatti, non c’è conoscenza, convinzione esposta metaforicamente nella scena del fabbro ferraio, con cui culmina la riflessione della seconda Prefazione. Quello della “cristallizzazione” è un processo che stabilisce una linea di demarcazione netta tra il presente e il passato, poiché si può intendere lucidamente solo ciò che è passato, solo il ricordo. La vicenda del suo forzato allontanamento dagli affari, ricordata in Un contratto, mostra l’esattezza imparziale con cui il vegliardo può finalmente rileggere, oggi, l’episodio forse più mortificante della sua vecchiaia, cioè il contratto che lo condannava alla quiescenza; nell’atto di “cristallizzare” Zeno conquista l’oggettività, confessa il vero, riconosce la sua inferiorità e sconfitta. Perché sia intellegibile, l’esperienza va rievocata allo stato di cristallo, non di magma; esperienza e scrittura non possono essere consecutive, in mezzo deve esserci un intervallo, almeno psicologico. È il “tempo misto” di cui parla Svevo nella seconda Prefazione, il tempo della memoria, che viene a incrociarsi col tempo dell’esperienza: “misto” quanto ai vissuti – trattenuti dalla memoria – ma non quanto al sentimento, perché la vita non si ricorda con lo stesso sentimento di quando il fatto è accaduto.
La memoria, dunque, svolge una funzione “attiva”, agli antipodi della memoria involontaria di Proust; Svevo si affida, infatti, a un intenzionale raccoglimento, i suoi “restauri” procedono per “contiguità”, sulla base delle annotazioni precedentemente effettuate, secondo il metodo della “rammemorazione a catena”. Al tempo “ritrovato” di Proust, Svevo oppone il tempo “cristallizzato”, è prioritario veder chiaro nei fatti senza aspettare di scoprirne l’essenza accidentalmente; per questo lo Zeno vegliardo si affretta, con la scrittura, a mettere in salvo tutto ciò su cui il tempo non ha ancora esercitato la sua azione centrifuga.
Tuttavia l’autonomia di visione nei confronti di Proust non toglie che la lettura di quest’ultimo abbia avuto ripercussioni sulla genesi del Vegliardo, specie sulla seconda Prefazione, dove si registra un alto numero di reminiscenze proustiane. C’è una pagina, in particolare, del Tempo ritrovato in cui si può riconoscere la cellula da cui sarebbero derivati Il mio ozio e l’incipit del secondo Vegliardo, la sequenza dell’agnizione sbagliata della “leggiadra fanciulla”; però, a differenza di Proust, Svevo conferisce il primato alla realtà, non al ricordo, preannunciando quello che sarà il fine ultimo del “raccoglimento” letterario del vegliardo, vale a dire una migliore comprensione della condizione attuale di Zeno. Il ricordo è piegato alle esigenze del momento, la “cristallizzazione” non deve far perdere di vista la centralità del presente; a Zeno, infatti, importa più vivere che ri-vivere e Svevo, tramite l’immagine della fanciulla, enuncia quello che sarà il grande motivo conduttore del romanzo: la vecchiaia come condizione negata alla vita.
Quello che Zeno sta vivendo è il suo “tempo ultimo”, non può scongiurare il pericolo della morte, ma può mettere in pace la coscienza facendo tutto il necessario per la sua sopravvivenza, tant’è che Il mio ozio è la trascrizione, onesta, di questa paura della morte e delle pratiche igieniche per esorcizzarla. Anche nei contatti con Felicita, la giovane amante che Zeno si procura, il protagonista si prefigge solo di tenere lontano da sé lo spettro della morte, così che anche l’amore è piegato solo a una funzione di profilassi. Questo tema delle pratiche igieniche s’incrocia poi, nel medesimo capitolo, con quello dell’economia politica; infatti Zeno, per accedere all’amore, può solo comprarlo: il denaro è all’origine di questo rapporto e aleggia su di esso; si tratta di uno scambio di averi (la gioventù per la ricchezza) in cui non c’è posto per i sentimenti. Ma è un’avventura che acquista, per Zeno, anche un valore pedagogico, tanto che Il mio ozio può essere considerato come una “piccola educazione sentimentale” che dà a Zeno una coscienza definitiva dell’età cui è giunto. Un’avventura dannosa per il portafoglio, ma anche per la salute, poiché, se assunta in quantità eccessiva, la cura dell’amore poteva diventare nociva: ci è qui offerto il contributo più interessante dell’ultimo Svevo in materia di salute, vale a dire la riflessione intorno alla “legge dell’equilibrio” tra i vari organi, equilibrio in realtà inesistente, ma che a Svevo importa, anzitutto, come criterio morale, come quel “conato al meglio” che ha percorso l’intera vita di Zeno. L’obiettivo di quest’ultimo resta, infatti, sempre lo stesso: inseguire una condizione ottimale di vita, quella che gli economisti definirebbero la “massimizzazione degli utili”. Diventa chiara, allora, la decisione di ridimensionare il capitolo “amore”, la funzione riproduttiva, rinunciando alle dosi tossiche di Felicita.
Spostiamoci, ora, sull’analisi semantica del titolo, Il vegliardo, che ci condurrà sino al senso più profondo di questo quarto capolavoro di Svevo. Sulla scelta del titolo – che in origine avrebbe dovuto essere Il vecchione – può darsi abbia influito Il tempo ritrovato con la sfilata dei decrepiti “vieillards” di palazzo Guermantes; tuttavia l’italiano “vegliardo” non traduce alla lettera il francese “vieillard”, che non distingue, come invece l’italiano, tra “vecchio”, “vegliardo” o “vecchione”, per cui la scelta di Svevo indicherebbe per il protagonista una condizione specifica. Soffermiamoci, allora, sull’età del “vegliardo”: Zeno ha esattamente settant’anni e l’insistenza su questo dato anagrafico non può essere involontaria; è un’età simbolica, cui si lega la sensazione che, per lo Svevo del quarto romanzo, “vegliardi” si diventi, appunto, a settant’anni. “Vegliardo” è l’uomo giunto al termine del suo soggiorno terreno, che vive il suo “tempo ultimo”, “mutilato” di una prospettiva essenziale come il futuro; un tempo, quello “ultimo” che, per Svevo, è la stagione del raccoglimento. Ma perché proprio settant’anni? La spiegazione va cercata, in primis, nell’opera dantesca, da Inf. I 1 a Conv. IV 23-28. Non a caso già ad Emilio Brentani, trentacinquenne, Svevo aveva attribuito un’età che lo collocava “nel mezzo del cammin di nostra vita” e Zeno ha esattamente il doppio degli anni di Emilio, quanti ne servono, secondo Dante, per passare dalla “senettute” al “senio”, cioè all’“ultima etade”. Il “senio” costituisce una specie di vita postuma, o sospesa, così come “il principio de la vita” nel grembo materno contrassegna una sorta di limbo.
Anche nel capitolo su Umbertino è possibile rilevare questa ruminazione del Convivio, che fa luce su una frase apparentemente oscura: “E tuttavia davvero io credo che amo tanto Umbertino perché è tuttavia fuori dell’età”: le due estremità della vita – il “principio” e il “senio” – erano fuori dalle età di cui Dante aveva determinato la durata. A questo punto, di conseguenza, anche il rapporto tra Zeno e Umbertino – su cui torneremo – recherebbe un’impronta “conviviale”, proprio per la comune condizione “fuori dell’età”.
Tornando, però, alla parola “vegliardo”, oltre a Proust si possono riconoscere anche reminiscenze italiane: pensiamo al coro manzoniano del Carmagnola, ma anche alla novella di Natan del Boccaccio, sorta di apologo in onore della vecchiaia, di cui celebra la superiorità, almeno in fatto di virtù, rispetto alla giovinezza. L’opposizione tra vecchiaia e gioventù era un “topos” letterario accreditato da una tradizione ricca e illustre, ma Svevo – attento a captare i segnali di mutamento della borghesia urbana – avverte che ormai il “vegliardo” non ha più una posizione di preminenza, anzi deve subire la derisione dei giovani. Già nel preambolo del primo Vegliardo Zeno aveva ammesso che la conseguenza principale del suo ingresso nella vecchiaia era stata di farlo “entrare nell’ombra”, metafora ripresa dal Re Lear e già presente anche nella Coscienza di Zeno. Ma Re Lear è anche la tragedia del vincolo spezzato tra padri e figli, dell’incomprensione, e un’eco di questa tragedia si avverte nel primo Vegliardo: come già il vecchio Cosini, anche Zeno sconta un’inadeguatezza a esercitare la sua funzione paterna, la parola chiarificatrice non viene pronunciata, si accumula solo rancore, e così il mito pascoliano del “nido” si fa sempre più lontano.
Quello della solitudine, che qui viene toccato, è un altro tema canonico della cultura moderna, ma le radici ebraiche di Svevo gli conferiscono una caratterizzazione particolare, poiché essa viene vissuta solo sull’asse della discendenza maschile, quindi nei confronti di Alfio. Nel Vegliardo prioritaria diventa la sopravvivenza del padre nei figli, la trasmissione delle “impronte di famiglia”. Ecco perché la notevole diversità che all’inizio Zeno registra tra sé e Alfio lo getta nello sconforto. Tuttavia il computo dei pregi e dei difetti che Antonia ha ereditato dai genitori dispone Zeno a rivedere le sue prime conclusioni sul conto di Alfio e, questa, sarà una delle conquiste più importanti del suo raccoglimento. Se, però, nei figli sopravvivono solo “i più gravi difetti” – altra riflessione nata prendendo “in esame” la figlia – non è in questa direzione che può essere soddisfatto il desiderio del vegliardo di trionfare sulla morte.
Per fare questo, Zeno imboccherà un’altra strada, in compagnia del piccolo nipote. L’intesa che scatta tra i due è all’insegna della marginalità anagrafica, che colloca entrambi nella posizione privilegiata di osservatori esterni alla lotta del mondo. Il loro è un occhio interiore che vede alla maniera dei poeti, cioè non le cose ma attraverso le cose. L’oggetto che più attira la curiosità di Umbertino e del nonno è la ferrovia; il treno, come metafora della vita, non è immagine nuova in Svevo, ma qui l’interesse di Umbertino si concentra soprattutto sulle rotaie che si perdono in un punto lontano. Si tratta di un passo del testo problematico e metafisico, tale è l’unico binario di cui nonno e nipote cercano di scoprire “il principio e la fine”, partenza e arrivo di un viaggio che si ripete sempre uguale, metafora dell’itinerario stesso della vita.
Da qui, però, un’importante conseguenza: se il traguardo viene a coincidere con la partenza, vuol dire che ogni convoglio, cioè ogni uomo, segue un tracciato circolare e questo spiega l’affinità che lega vecchi e bambini. A designare, poi, la morte che inghiotte la vita, ecco l’uso di un’altra immagine: la galleria, metafora del sepolcro. Proprio attraverso questa immagine e una fitta serie di rimandi biblici, soprattutto all’Apocalisse, per i quali Langella parla di “filigrana apocalittica”, è introdotta una prospettiva nuova su quel “mistero della morte” cui Zeno da tani anni aveva “pensato ogni giorno”. Quella di una “seconda vita” era un’eventualità che Svevo andava considerando attentamente. Determinante, nel passo di Umbertino collazionato con Ap. XXI, è l’idea del risveglio, con il “mattino” che è proprio immagine della risurrezione. Se il “buco” nero che inghiotte il treno della vita rappresenta il sepolcro, la locomotiva che ne esce è metafora del trionfo sulla morte.
Dunque all’infanzia come alla vecchiaia l’ultimo Svevo assegna la prerogativa della conoscenza profonda e il silenzio di Umbertino e di Zeno non è di resa, ma serve ad avvolgere di pudore ciò che è sacro e ineffabile, un silenzio pieno d’intelligenza, di chi “vede” oltre, di chi “intende e indovina tutto”.
G.V.