Le 'Favole' della "Ronda"
Bulzoni Editore, Roma(1998)
Con questa monografia Langella sgombra il terreno dai molti fraintendimenti che, per troppo tempo e ingiustamente, hanno gravato sulla “Ronda” (1919-1923), svelandone il volto moderno.
Seguiremo anche in questo caso la divisione in capitoli voluta dall’autore, dando di ognuno di essi le coordinate essenziali.
La prassi del rifacimento
Il volto brillante e giocoso della “Ronda” emerge dall’inventio, considerando le fonti cui si sono rifatti i letterati della rivista. La loro fu infatti un’invenzione di seconda mano, anzi in molti casi una vera e propria riscrittura del modello. Possono servire di esempio Le Favole della Genesi di Vincenzo Cardarelli, vero gioco di specchi che presuppone la conoscenza del libro sacro. Davanti allo scarno racconto biblico Cardarelli sbriglia l’immaginazione, trascrivendo il testo rivelato in chiave di favola e volgendo la favola in apologo, discorso figurato sull’uomo e sulla sua esistenza.
La filosofia del malessere
Le maggiori differenze tra le Favole della Genesi e il primo libro dell’Antico Testamento investono il piano dei significati. In particolare, nella figura di Caino viene adombrata la storia del lavoro e del progresso. Caino diventa il simbolo di un’umanità che si è sollevata dalla propria natura primitiva a prezzo di immani fatiche e l’assillo di mille preoccupazioni, trasformando la terra in un “inferno”. Ma questa pena di vivere per l’autore è inevitabile, poiché appartenente all’ordine naturale delle cose. Il male è radicato nell’essere. Si tratta di un’antropologia del malessere che pone la caduta dell’uomo fuori dall’ambito morale; una concezione tragica, lontanissima dalla filosofia cristiana della storia.
Ironia e distacco
Proprio questa visione pessimistica, rassegnata, rinunciataria, fa scattare la molla dell’ironia, centrale nella poetica rondesca, esito di quella filosofia che consiglia di prendere la vita in modo disincantato, quasi per scherzo. Gli autori della “Ronda” sono convinti che non v’è conoscenza senza distacco e si affidano per questo ai filtri distanzianti della favola e dell’ironia. E poiché nelle Favole della Genesi l’ironia si pone al servizio di un pensiero negativo, essa ha il compito di demistificare il referente, facendo perdere al dato biblico ogni alone di sacralità. Qui è soprattutto Nietzsche che funge da modello, venendo incontro a Cardarelli con la sua proclamazione della morte di Dio.
La gaia scienza
Nietzsche gode di grandissima considerazione tra i prosatori della “Ronda”, ispirando a Cardarelli il passaggio da una poetica del risentimento a una dello straniamento. Nelle pagine della Gaia scienza egli trova lo spunto per un’arte diversa, beffarda, in grado di ridere dell’esistenza. Il riso – come nel Vegliardo sveviano – diventa espressione di una superiore saggezza.
Il mito e la sapienza dionisiaca
Sulle orme di Nietzsche, Cardarelli vagheggia un’arte che possa alleviare la vita salvando l’uomo dalla disperazione. Questo canone della levità, dell’abolizione del pathos, s’intreccia con quello della lontananza. La prospettiva remota favorisce il paragone, allarga il campo visuale e relativizza ogni avvenimento. Si comprende, allora, la scelta del mito, che consente una lettura del reale sub specie aeterni. Le Favole possiedono, perciò, un valore archetipico, con personaggi e vicende che acquistano un’esemplarità mitica.
E Leopardi?
Anche in materia di stile nelle Favole è Nietzsche a tenere banco, tanto da influenzare la stessa interpretazione rondiana delle Operette morali del Leopardi, di cui viene messa in luce l’atmosfera di ironia e distacco, a prescindere dalle teorie morali e metafisiche.
Il codice misto
Il termine “favole” non deve ingannare, poiché esse presentano elementi incompatibili con le forme classiche della favola di animali e della fiaba. Il termine non vuole qui indicare un preciso genere letterario, ma evocare un mondo fittizio, straniato. Così, non è nel campo del favolistico ma del favoloso che possiamo inscrivere opere come le Favole della Genesi o l’Amleto e Lo sa il tonno di Riccardo Bacchelli. È proprio quest’ultimo testo, di Bacchelli, a mostrarci quanto sia complesso il sistema letterario messo in atto dai membri della rivista. Le stesse fonti alle quali s’ispira – Virgilio, Goethe, Swift, Sterne, Gogol, Flaubert, il Leopardi dei Paralipomeni – coprono un quadro più ampio di quello favolistico, andando dal viaggio conoscitivo all’esperienza di formazione, dalla satira politica al poema e al romanzo. Se questo non bastasse, altri elementi confermano l’impossibilità di qualificare questo testo come favola:
- la stessa specie animale è investita di significati diversi, al di fuori di ogni ortodossia favolistica;
- la vicenda si svolge in un momento e in un luogo determinati, quelli di cui l’autore era testimone, e i personaggi sono immersi negli avvenimenti più recenti;
- al libero arbitrio, proprio della favola, si sostituiscono le categorie del caso, dell’istinto, del destino;
- le competizioni che si creano sono tutte senza sbocchi, non ci sono mai né un vinto né un vincitore.
Il travestimento animale, dunque, è solo un espediente, atto a produrre quella degradazione della materia che favorisce l’ironia e a produrre un effetto straniante.
Le verità della favola
Bacchelli, però, fa qualcosa in più: inserisce l’evento, che sa di prodigio, in un contesto realistico, anche se le circostanze della cattura del tonno risucchiano l’intero contenuto nell’invenzione. Quello che importa è che la finzione contenga una verità, poiché è finito il tempo in cui l’uomo credeva nelle favole. Finzione e verità: lo statuto delle favole rondiane è tutto concentrato in questa dialettica. Attraverso la finzione allegorica delle avventure di un tonno l’opera vuole essere un libro della sapienza e proprio la saggezza diventa il motivo conduttore del racconto, anche se Bacchelli ne va a sottolineare i limiti. Tesi di fondo è infatti che non si sa nulla, se non quel poco che s’impara con l’esperienza. È una visione dolorosa del vivere a caratterizzare tutta l’opera di Bacchelli, un sentimento d’invariabilità e ripetitività dell’umano destino, con una sola certezza: l’immanenza del male. In questo contesto l’unico saggio è il paziente: la “favola” di Bacchelli è un elogio della pazienza, virtù capace di tradurre in morale quotidiana l’aspirazione rondesca alla saggezza. All’immanenza del male non si reagisce più con la disperazione o la ribellione romantiche, ma con la pazienza, come testimoniato anche dal Michelaccio di Antonio Baldini, personificazione di una filosofia del distacco dalle passioni umane.
Calligrafi o moralisti?
Eccoci alla domanda fondamentale da cui sono derivati i tanti fraintendimenti intorno alla rivista romana. In base a quanto si è detto, si può affermare che l’approdo alla “Ronda” per gli scrittori che vi giungono coincida con la conquista non del disimpegno ma del disincanto. Lo sforzo unanime di tutto il gruppo sarebbe stato quello di trasformare il moralismo in saggezza, di temperare la serietà attraverso l’ironia. A salvare i rondiani dal calligrafismo sta la loro precedente milizia nella “Voce”, il moralismo della loro formazione. Insomma, anche la letteratura della “Ronda”, al di là delle apparenze, ha le sue verità da comunicare.
Le donne, i cavallier…
Proprio perché alla ricerca della saggezza, i rondiani guardano con sospetto al cliché decadente della femme fatale. In particolare il sarcasmo riscontrabile nel Viaggio attraverso la gioventù di Lorenzo Montano s’inserisce nella più vasta polemica ingaggiata dagli scrittori della “Ronda” contro ogni forma di letteratura dozzinale. Quanto ai legami affettivi, i rondiani concordano nel negare all’amore ogni stabilità. Gli uomini sono volubili, soggetti al mutamento. Queste premesse ancora una volta disincantate spiegano l’insistenza con cui torna nei loro scritti il topos dell’abbandono, come testimoniano, per esempio, l’Orfeo di Giuseppe Raimondi o Il ratto d’Arianna di Montano, alla base dei quali agisce una visione demoniaca della donna (ed Euridice, non a caso, è lasciata all’Inferno). Il legame amoroso viene visto come forza paralizzante, che indebolisce l’uomo, sviandolo dai suoi compiti. Non a caso, l’amore viene abbinato al labirinto. Un’altra antitesi che viene a crearsi è quella del sonno-risveglio: la servitù d’amore genera il sonno della virtù, mentre il distacco diventa il passo immediato di chi si ridesta, il ritorno alla realtà.
La poetica dello straniamento
I rondiani trovano un avallo alla pratica dello straniamento nello Zibaldone di Leopardi, dove si leggeva degli antichi poeti che sceglievano soggetti per lo più lontani di tempo, luogo, costumi dagli spettatori. Esattamente questo è quanto fanno i rondiani attingendo a una materia remota e favolosa, agendo sia a livello di tempo che di spazio, nella consapevolezza che il male è universale. Lo straniamento rondesco consiste nel camuffamento favoloso della realtà, che rende distante o remoto ciò che invece incombe prossimo o presente.
La vita come teatro
Gli scrittori che gravitarono attorno alla “Ronda” si dedicarono anche all’invenzione teatrale. Suggerita da Cardarelli, essa fu però realizzata da Bacchelli, prima con l’Amleto, poi con Spartaco e gli schiavi. Nell’incoraggiare l’autore a piegare in opera buffa la vicenda tragica del principe di Danimarca, Nietzsche, di nuovo, aveva avuto la sua responsabilità; questi, infatti, aveva previsto l’avvento di un’epoca in cui la visione comica e beffarda della vita avrebbe preso il posto di quella tragica e seria, avvertendo la crisi della tragedia in una civiltà che aveva cessato di gravitare intorno a saldi principi morali e religiosi. Il capolavoro di Shakespeare si riduce, nell’opera di Bacchelli, a una sorta di canovaccio su cui l’attore è chiamato a improvvisare il suo repertorio comico, consapevole a priori della sorte che lo attende, come se l’autore avesse ceduto al personaggio la sua onniscienza. In questo consiste tutta la novità della proposta bacchelliana, ciò che consente al protagonista-buffone di scherzare sull’orlo della tomba.
La mediazione letteraria
L’intento che sta alla base del ripescaggio rondesco delle fonti è quello di provocare un corto circuito tra il passato remoto del mito e il presente attuale della cronaca. È la loro filosofia immobilistica, la loro visione ripetitiva delle sciagure umane, a giustificare il ricorso al patrimonio letterario come fonte d’ispirazione; poiché tutto è accaduto e tutto è stato scritto, tanto vale attingere al repertorio della tradizione, ravvisando in essa un thesaurus vitae completo.
Classicismo “a doppio fondo”
In conclusione, quanto fu classicista “La Ronda”?
Ci viene in aiuto Cecchi: “La Ronda” – scrive – non fu una chiesuola neoclassica o accademica. La rivista era nata per tentare di coniugare classicismo e modernità. Il suo classicismo è da intendersi, perciò, in senso metaforico e a doppio fondo, e diversi elementi basterebbero per sfatare il luogo comune del classicismo rondesco:
- l’uso non ortodosso della fonte, spesso profanata anziché imitata;
- l’utilizzo dell’ironia, antidoto contro l’angoscia;
- la polemica sull’uso della prosa al posto della poesia, altro colpo mortale inferto al classicismo;
- la contaminazione di registri e le licenze grammaticali.
Un’involuzione classicistica si avrà solo nella fase calante della “Ronda”, inaugurata dal Testamento letterario di Giacomo Leopardi, del marzo-aprile 1921. Il tono dominante del periodico si farà più grave ed elitario, si respirerà un clima di restaurazione, e la rivista si consegnerà alle giuste riserve della critica. Ritorno all’ordine che coinciderà anche con l’abbandono della pratica rondesca della favola; la crisi delle favole antiche, diventate nella cultura moderna lettera morta, del sapere umanistico, manderà in crisi il progetto letterario del gruppo, basato sul lavoro d’ingegno su una materia sino ad allora più che nota. “La Ronda” era dunque destinata a morire insieme alle sue favole.
G.V.
Seguiremo anche in questo caso la divisione in capitoli voluta dall’autore, dando di ognuno di essi le coordinate essenziali.
La prassi del rifacimento
Il volto brillante e giocoso della “Ronda” emerge dall’inventio, considerando le fonti cui si sono rifatti i letterati della rivista. La loro fu infatti un’invenzione di seconda mano, anzi in molti casi una vera e propria riscrittura del modello. Possono servire di esempio Le Favole della Genesi di Vincenzo Cardarelli, vero gioco di specchi che presuppone la conoscenza del libro sacro. Davanti allo scarno racconto biblico Cardarelli sbriglia l’immaginazione, trascrivendo il testo rivelato in chiave di favola e volgendo la favola in apologo, discorso figurato sull’uomo e sulla sua esistenza.
La filosofia del malessere
Le maggiori differenze tra le Favole della Genesi e il primo libro dell’Antico Testamento investono il piano dei significati. In particolare, nella figura di Caino viene adombrata la storia del lavoro e del progresso. Caino diventa il simbolo di un’umanità che si è sollevata dalla propria natura primitiva a prezzo di immani fatiche e l’assillo di mille preoccupazioni, trasformando la terra in un “inferno”. Ma questa pena di vivere per l’autore è inevitabile, poiché appartenente all’ordine naturale delle cose. Il male è radicato nell’essere. Si tratta di un’antropologia del malessere che pone la caduta dell’uomo fuori dall’ambito morale; una concezione tragica, lontanissima dalla filosofia cristiana della storia.
Ironia e distacco
Proprio questa visione pessimistica, rassegnata, rinunciataria, fa scattare la molla dell’ironia, centrale nella poetica rondesca, esito di quella filosofia che consiglia di prendere la vita in modo disincantato, quasi per scherzo. Gli autori della “Ronda” sono convinti che non v’è conoscenza senza distacco e si affidano per questo ai filtri distanzianti della favola e dell’ironia. E poiché nelle Favole della Genesi l’ironia si pone al servizio di un pensiero negativo, essa ha il compito di demistificare il referente, facendo perdere al dato biblico ogni alone di sacralità. Qui è soprattutto Nietzsche che funge da modello, venendo incontro a Cardarelli con la sua proclamazione della morte di Dio.
La gaia scienza
Nietzsche gode di grandissima considerazione tra i prosatori della “Ronda”, ispirando a Cardarelli il passaggio da una poetica del risentimento a una dello straniamento. Nelle pagine della Gaia scienza egli trova lo spunto per un’arte diversa, beffarda, in grado di ridere dell’esistenza. Il riso – come nel Vegliardo sveviano – diventa espressione di una superiore saggezza.
Il mito e la sapienza dionisiaca
Sulle orme di Nietzsche, Cardarelli vagheggia un’arte che possa alleviare la vita salvando l’uomo dalla disperazione. Questo canone della levità, dell’abolizione del pathos, s’intreccia con quello della lontananza. La prospettiva remota favorisce il paragone, allarga il campo visuale e relativizza ogni avvenimento. Si comprende, allora, la scelta del mito, che consente una lettura del reale sub specie aeterni. Le Favole possiedono, perciò, un valore archetipico, con personaggi e vicende che acquistano un’esemplarità mitica.
E Leopardi?
Anche in materia di stile nelle Favole è Nietzsche a tenere banco, tanto da influenzare la stessa interpretazione rondiana delle Operette morali del Leopardi, di cui viene messa in luce l’atmosfera di ironia e distacco, a prescindere dalle teorie morali e metafisiche.
Il codice misto
Il termine “favole” non deve ingannare, poiché esse presentano elementi incompatibili con le forme classiche della favola di animali e della fiaba. Il termine non vuole qui indicare un preciso genere letterario, ma evocare un mondo fittizio, straniato. Così, non è nel campo del favolistico ma del favoloso che possiamo inscrivere opere come le Favole della Genesi o l’Amleto e Lo sa il tonno di Riccardo Bacchelli. È proprio quest’ultimo testo, di Bacchelli, a mostrarci quanto sia complesso il sistema letterario messo in atto dai membri della rivista. Le stesse fonti alle quali s’ispira – Virgilio, Goethe, Swift, Sterne, Gogol, Flaubert, il Leopardi dei Paralipomeni – coprono un quadro più ampio di quello favolistico, andando dal viaggio conoscitivo all’esperienza di formazione, dalla satira politica al poema e al romanzo. Se questo non bastasse, altri elementi confermano l’impossibilità di qualificare questo testo come favola:
- la stessa specie animale è investita di significati diversi, al di fuori di ogni ortodossia favolistica;
- la vicenda si svolge in un momento e in un luogo determinati, quelli di cui l’autore era testimone, e i personaggi sono immersi negli avvenimenti più recenti;
- al libero arbitrio, proprio della favola, si sostituiscono le categorie del caso, dell’istinto, del destino;
- le competizioni che si creano sono tutte senza sbocchi, non ci sono mai né un vinto né un vincitore.
Il travestimento animale, dunque, è solo un espediente, atto a produrre quella degradazione della materia che favorisce l’ironia e a produrre un effetto straniante.
Le verità della favola
Bacchelli, però, fa qualcosa in più: inserisce l’evento, che sa di prodigio, in un contesto realistico, anche se le circostanze della cattura del tonno risucchiano l’intero contenuto nell’invenzione. Quello che importa è che la finzione contenga una verità, poiché è finito il tempo in cui l’uomo credeva nelle favole. Finzione e verità: lo statuto delle favole rondiane è tutto concentrato in questa dialettica. Attraverso la finzione allegorica delle avventure di un tonno l’opera vuole essere un libro della sapienza e proprio la saggezza diventa il motivo conduttore del racconto, anche se Bacchelli ne va a sottolineare i limiti. Tesi di fondo è infatti che non si sa nulla, se non quel poco che s’impara con l’esperienza. È una visione dolorosa del vivere a caratterizzare tutta l’opera di Bacchelli, un sentimento d’invariabilità e ripetitività dell’umano destino, con una sola certezza: l’immanenza del male. In questo contesto l’unico saggio è il paziente: la “favola” di Bacchelli è un elogio della pazienza, virtù capace di tradurre in morale quotidiana l’aspirazione rondesca alla saggezza. All’immanenza del male non si reagisce più con la disperazione o la ribellione romantiche, ma con la pazienza, come testimoniato anche dal Michelaccio di Antonio Baldini, personificazione di una filosofia del distacco dalle passioni umane.
Calligrafi o moralisti?
Eccoci alla domanda fondamentale da cui sono derivati i tanti fraintendimenti intorno alla rivista romana. In base a quanto si è detto, si può affermare che l’approdo alla “Ronda” per gli scrittori che vi giungono coincida con la conquista non del disimpegno ma del disincanto. Lo sforzo unanime di tutto il gruppo sarebbe stato quello di trasformare il moralismo in saggezza, di temperare la serietà attraverso l’ironia. A salvare i rondiani dal calligrafismo sta la loro precedente milizia nella “Voce”, il moralismo della loro formazione. Insomma, anche la letteratura della “Ronda”, al di là delle apparenze, ha le sue verità da comunicare.
Le donne, i cavallier…
Proprio perché alla ricerca della saggezza, i rondiani guardano con sospetto al cliché decadente della femme fatale. In particolare il sarcasmo riscontrabile nel Viaggio attraverso la gioventù di Lorenzo Montano s’inserisce nella più vasta polemica ingaggiata dagli scrittori della “Ronda” contro ogni forma di letteratura dozzinale. Quanto ai legami affettivi, i rondiani concordano nel negare all’amore ogni stabilità. Gli uomini sono volubili, soggetti al mutamento. Queste premesse ancora una volta disincantate spiegano l’insistenza con cui torna nei loro scritti il topos dell’abbandono, come testimoniano, per esempio, l’Orfeo di Giuseppe Raimondi o Il ratto d’Arianna di Montano, alla base dei quali agisce una visione demoniaca della donna (ed Euridice, non a caso, è lasciata all’Inferno). Il legame amoroso viene visto come forza paralizzante, che indebolisce l’uomo, sviandolo dai suoi compiti. Non a caso, l’amore viene abbinato al labirinto. Un’altra antitesi che viene a crearsi è quella del sonno-risveglio: la servitù d’amore genera il sonno della virtù, mentre il distacco diventa il passo immediato di chi si ridesta, il ritorno alla realtà.
La poetica dello straniamento
I rondiani trovano un avallo alla pratica dello straniamento nello Zibaldone di Leopardi, dove si leggeva degli antichi poeti che sceglievano soggetti per lo più lontani di tempo, luogo, costumi dagli spettatori. Esattamente questo è quanto fanno i rondiani attingendo a una materia remota e favolosa, agendo sia a livello di tempo che di spazio, nella consapevolezza che il male è universale. Lo straniamento rondesco consiste nel camuffamento favoloso della realtà, che rende distante o remoto ciò che invece incombe prossimo o presente.
La vita come teatro
Gli scrittori che gravitarono attorno alla “Ronda” si dedicarono anche all’invenzione teatrale. Suggerita da Cardarelli, essa fu però realizzata da Bacchelli, prima con l’Amleto, poi con Spartaco e gli schiavi. Nell’incoraggiare l’autore a piegare in opera buffa la vicenda tragica del principe di Danimarca, Nietzsche, di nuovo, aveva avuto la sua responsabilità; questi, infatti, aveva previsto l’avvento di un’epoca in cui la visione comica e beffarda della vita avrebbe preso il posto di quella tragica e seria, avvertendo la crisi della tragedia in una civiltà che aveva cessato di gravitare intorno a saldi principi morali e religiosi. Il capolavoro di Shakespeare si riduce, nell’opera di Bacchelli, a una sorta di canovaccio su cui l’attore è chiamato a improvvisare il suo repertorio comico, consapevole a priori della sorte che lo attende, come se l’autore avesse ceduto al personaggio la sua onniscienza. In questo consiste tutta la novità della proposta bacchelliana, ciò che consente al protagonista-buffone di scherzare sull’orlo della tomba.
La mediazione letteraria
L’intento che sta alla base del ripescaggio rondesco delle fonti è quello di provocare un corto circuito tra il passato remoto del mito e il presente attuale della cronaca. È la loro filosofia immobilistica, la loro visione ripetitiva delle sciagure umane, a giustificare il ricorso al patrimonio letterario come fonte d’ispirazione; poiché tutto è accaduto e tutto è stato scritto, tanto vale attingere al repertorio della tradizione, ravvisando in essa un thesaurus vitae completo.
Classicismo “a doppio fondo”
In conclusione, quanto fu classicista “La Ronda”?
Ci viene in aiuto Cecchi: “La Ronda” – scrive – non fu una chiesuola neoclassica o accademica. La rivista era nata per tentare di coniugare classicismo e modernità. Il suo classicismo è da intendersi, perciò, in senso metaforico e a doppio fondo, e diversi elementi basterebbero per sfatare il luogo comune del classicismo rondesco:
- l’uso non ortodosso della fonte, spesso profanata anziché imitata;
- l’utilizzo dell’ironia, antidoto contro l’angoscia;
- la polemica sull’uso della prosa al posto della poesia, altro colpo mortale inferto al classicismo;
- la contaminazione di registri e le licenze grammaticali.
Un’involuzione classicistica si avrà solo nella fase calante della “Ronda”, inaugurata dal Testamento letterario di Giacomo Leopardi, del marzo-aprile 1921. Il tono dominante del periodico si farà più grave ed elitario, si respirerà un clima di restaurazione, e la rivista si consegnerà alle giuste riserve della critica. Ritorno all’ordine che coinciderà anche con l’abbandono della pratica rondesca della favola; la crisi delle favole antiche, diventate nella cultura moderna lettera morta, del sapere umanistico, manderà in crisi il progetto letterario del gruppo, basato sul lavoro d’ingegno su una materia sino ad allora più che nota. “La Ronda” era dunque destinata a morire insieme alle sue favole.
G.V.