GIUSEPPE LANGELLA
IL SECOLO PIÙ LUNGO. PROPOSTE PER LA STORIA E IL CANONE DEL NOVECENTO
Dall'opera collettanea La didattica della letteratura nella scuola delle competenze, a cura di Giuseppe Langella, Edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 91-109
1. IL NOVECENTO ALLA DOGANA
Come tutti sappiamo, recependo un’esigenza che si era andata facendo, con gli anni, sempre più pressante, tanto le Indicazioni nazionali per i nuovi licei quanto le Linee guida per il riordino dell’istruzione tecnica e professionale anticipano al quarto anno lo studio della letteratura dell’età romantica e risorgimentale, riservando quindi l’intero anno della maturità alla letteratura postunitaria. Ora, non è chi non veda, in questa modifica da tempo attesa e invocata, un passo in avanti di fondamentale importanza, perché finalmente consentirà agli insegnanti di addentrarsi nel Novecento, invece di restare sulla soglia, come finora troppo spesso è accaduto, nella concreta pratica didattica, per fatale mancanza di tempo. Non per nulla, proprio per far posto alla letteratura contemporanea, un’articolazione simile era già stata proposta, fin dagli anni novanta, dalla commissione Brocca e in questo senso si sono mosse le varie sperimentazioni didattiche varate negli ultimi lustri. Vero è che l’inserimento di Leopardi, almeno per i Licei, nel programma del quinto anno, pericolosamente decontestualizzato e del tutto incongruente rispetto al nuovo disegno, rischia di vanificare, in parte, i benefici dell’avanzamento; comunque, nessuno potrà più lamentare, domani, l’anacronistica e discriminante esclusione della letteratura contemporanea dall’insegnamento scolastico[1]. Ad essa è stato fatto posto e un posto d’onore. Il Novecento, finalmente, non appare più, semplicemente, il fanalino di coda di una sfilata di secoli folta, illustre e gloriosa, ma un’epoca intrinsecamente ricca e affascinante, fortemente innovativa, contrassegnata da caratteri inconfondibili, generatrice di una propria tradizione e di classici di prima grandezza.
Peraltro, la manualistica scolastica da parecchi anni, ormai, ha riservato alla letteratura dell’ultimo secolo uno spazio addirittura maggiore rispetto a quello concesso agli altri: nell’ordine, per intenderci, di un tomo corposo, o più spesso di due. Ma tanto profluvio di testi e di autori arruolati sotto bandiera novecentesca non deve trarci in inganno: appena lo si guardi un po’ da vicino, bisogna riconoscere che il quadro è ancora troppo caotico e farraginoso, ben lontano dalla sistemazione desiderabile. S’impone, perciò, l’apertura urgente di un cantiere che bonifichi l’area e renda abitabile tutto il Novecento, non solo il suo segmento iniziale. Il compito potrà sembrare antipatico e ingrato, ma è indifferibile, anche perché da più di un decennio siamo ormai transitati nel terzo millennio, e compete principalmente a noi, dal momento che ci occupiamo ex professo della “modernità letteraria”. A tal fine, vorrei offrire appena qualche spunto di riflessione in ordine tanto al disegno storico del Novecento quanto al suo paradigma.
2. UN SECOLO A QUATTRO CAMPATE: UN PROBLEMA DI PERIODIZZAMENTO
Pongo, anzitutto, una inedita ma secondo me necessaria questione di periodizzamento. Un autorevole storico dell’età contemporanea come Hobsbawm ha definito il Novecento “il secolo breve”[2], avendone decapitate la testa e la coda. A suo modo di vedere, infatti, esso comincerebbe nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale, e finirebbe nel 1991, col dissolvimento dell’Unione Sovietica. Disgraziatamente, per chi si occupa di vicende letterarie, il Novecento è invece un secolo che non fa sconti: anche a non voler riaprire la vecchia (ma non oziosa) disputa sulla collocazione di Pascoli e D’Annunzio, esso appare tanto lungo e affollato e pieno di snodi decisivi, che, a voler essere aderenti ai fatti, non basta neppure suddividerlo, come si continua a fare per pigrizia, in due grandi campate, ma ne servirebbero addirittura quattro, ciascuna dominata da problemi specifici e con caratteristiche sue proprie.
Su quali basi, per cominciare, dovremmo continuare a tenere legate in un unico periodo due stagioni diametralmente opposte come l’inizio del secolo e il ventennio fascista? Nella prima – com’è noto – si consuma, baldanzosamente o col vestito a lutto, un simbolico parricidio, ad opera di una generazione letteraria che, come un genio guastatori, nel giro di pochi anni riesce a smantellare un’intera tradizione, dove la seconda, viceversa, inasta la bandiera del “ritorno all’ordine”; l’una dipinge di preferenza la realtà quotidiana, la colga nel ritmo febbrile della città moderna piuttosto che nella vita annoiata e inerte della provincia, mentre l’altra sconfina continuamente oltre la soglia dell’esperienza comune, in direzione surreale o magica o fantastica; l’una ha aperto le porte della poesia a ogni sorta di argomenti, rinunciando alla sua proverbiale aura di purezza per tuffarla in mezzo alla gente e contaminarla con la prosa, l’altra, facendo appello a un’idea sacrale, quasi mistica, ispirata, della poesia, ha ristabilito le distanze, arroccandosi nella torre d’avorio di un linguaggio sceltissimo, eletto, distillato, per iniziati, e officiando i culti di una religione ora orfica, ora elegiaca, ora ermetica. Allo stesso modo, non basta un unico contenitore per render conto dell’ennesima inversione a U compiuta dalla nostra letteratura dal secondo dopoguerra a oggi, passando dalla tensione utopica degli anni della ricostruzione alla più recente coscienza della sua «condizione postuma»[3], dall’impegno militante al gioco combinatorio, dall’oltranza ideologica alla citazione postmoderna, dalle agghiaccianti profezie apocalittiche al gusto truculento dei
‘cannibali’.
Dovremmo insomma abituarci a parlare di un primo, di un secondo, di un terzo e di un quarto Novecento, additando nella ‘Grande Guerra’, nel crollo del regime fascista e negli anni di piombo i tre grandi spartiacque della storia anche letteraria del nostro Paese. L’articolazione del Novecento in tre segmenti, adottata da qualcuno, con spostamento del secondo discrimine dal 1943 al 1956, mi pare invece una soluzione ideologica storiograficamente inaffidabile, perché se da un lato, in maniera del tutto aberrante, mette insieme, a monte, la letteratura del ‘ventennio’ con quella del democratico dopoguerra, dall’altro accoppia, a valle, con procedura altrettanto forzata, impegno e disimpegno, neoavanguardia e postmoderno.
3. REVISIONI, BONIFICHE E DISBOSCAMENTI: STORICIZZARE IL NOVECENTO
Ci sarebbe poi da fare, entrando nel merito, un lavoro di più puntuale storicizzazione dei fenomeni letterari, di più esatta circoscrizione delle rispettive aree d’influenza e di migliore determinazione delle poetiche, tenendo conto, magari, delle risultanze più aggiornate degli studi specialistici. Limiterò l’esemplificazione a qualche caso macroscopico:
4. LA NECESSITÀ DI FISSARE UN PARADIGMA
Ma quali sono, dunque, gli autori più rappresentativi del Novecento, quelli che, godendo del più vasto consenso, sono comunemente considerati, oggi, i “classici” del secolo da poco trascorso? Le Linee guida ad uso degli Istituti tecnici e professionali su questo non si pronunciano, mentre le Indicazioni nazionali per i licei affacciano una rosa di cinque nomi: Saba, Ungaretti e Montale per la poesia, Svevo e Pirandello per la prosa. Non si può non osservare, tuttavia, che dal punto di vista anagrafico perfino il più giovane di questi autori, vale a dire Montale, è nato nell’Ottocento e che insomma il canone ministeriale, per rifarsi alla classificazione a suo tempo proposta da Macrì[5], non si spinge al di là della “seconda generazione”. In altri termini, se la cinquina individuata è sicuramente incontestabile, soddisfa però solo per metà l’esigenza di stabilire il canone del Novecento, in quanto appare cronologicamente schiacciata sui primi decenni del secolo e in grado, quindi, di rappresentarne unicamente le fondazioni, lasciandone invece completamente scoperti gli sviluppi. Ma su tutto ciò che viene dopo, il giudizio non può restare interlocutorio, sospeso, perché, così facendo, complici la crescita esponenziale della produzione letteraria e la ricerca spasmodica, tipica del “moderno”, dell’originalità a tutti i costi, si rafforzerebbe quella visione del Novecento come “età caotica”, già deprecata da Harold Bloom nel suo Canone occidentale[6], cui nessuno, e tanto meno la scuola, può rassegnarsi. In quanto agenzia educativa, la scuola è tenuta infatti a ordinare e selezionare i contenuti da trasmettere. Al modello anarchico della rete, in cui le informazioni, vere o presunte, importanti o insignificanti, locali o planetarie, si trovano tutte sullo stesso piano, la scuola deve poter opporre un modello gerarchico, aperto ma necessariamente discriminante. Rinunciando a scegliere, a distinguere, a classificare, verrebbe meno a un preciso dovere istituzionale, che nel caso della letteratura ha poi strettamente a che fare con la trasmissione, a intere generazioni di giovani, di un patrimonio di civiltà e di umana sapienza. A queste obiezioni, fin troppo facili, si può ovviare in un unico modo: avendo il coraggio di fissare un paradigma in grado di coprire e rappresentare tutto il Novecento, compresi gli ultimi decenni. Si rende perciò necessario un aggiornamento ulteriore, o piuttosto un completamento, del canone.
5. AGGIORNAMENTO DEL CANONE
A tal fine, credo si possa pacificamente affiancare, agli autori di cui sopra, una seconda cinquina perfettamente simmetrica, a Svevo e Pirandello aggiungendo, per la narrativa, Gadda e Calvino, alla triade Saba Ungaretti Montale aggregando un altro terzetto di poeti: Gozzano, Luzi e Caproni. Per intenderci, se l’inserimento di Gozzano vale soltanto a colmare una lacuna non più ammissibile nel canone delle fondazioni novecentesche, le altre quattro integrazioni spostano significativamente in avanti la soglia anagrafica degli autori canonici, dando così una rappresentanza anche al terzo e al quarto Novecento.
Non che la letteratura italiana dell’ultimo secolo non abbia espresso, nella narrativa come nella lirica, parecchi altri autori di ottimo livello, ma allungare ulteriormente la lista andrebbe a scapito della stessa paradigmaticità del canone. Dieci classici per un solo secolo costituiscono già, di per sé, un numero esorbitante, quando appena si pensi che perfino l’Ottocento, il più ricco di autori canonici in tutto l’arco della nostra lunga tradizione letteraria, ne conta appena sei (Foscolo, Manzoni, Leopardi, Verga, Pascoli e D’Annunzio). Un canone o è selettivo, o non è. Concepire costellazioni di autori troppo folte sarebbe lo stesso che ammettere implicitamente la mancanza di veri e propri classici, capaci di brillare con un’intensità speciale anche nel più affollato spicchio di firmamento. Bisogna prendere atto che non tutti gli autori, anche se bravi, possiedono la medesima forza, non tutti sprigionano la medesima luce, non tutti riscuotono unanime, incondizionata, ammirazione.
È successo, inoltre, nel Novecento come nei secoli precedenti, che autori trovatisi, in un determinato periodo, al centro del canone ne siano poi usciti. Particolarmente sintomatico, in tal senso, è il caso toccato a Quasimodo, due volte sugli scudi, prima, negli anni trenta, come maestro della lirica pura, quindi, dopo la guerra, come poeta di vena epica e civile, che neppure il conferimento del premio Nobel, nel 1959, ha preservato dalla perdita di una posizione dominante, una volta esauritesi le ragioni che avevano alimentato le poetiche a lui più congeniali[7]. Del resto, sorte simile era toccata, prima che a lui, anche a Metastasio, a Monti o a Carducci, grandi dominatori, in vita, della scena letteraria, ma caduti rapidamente in disgrazia dopo la morte, se non addirittura nell’estremo declino, per il radicale mutamento dell’orizzonte letterario prodottosi nel frattempo. Occorre distinguere, perciò, con Segre[8], tra due diverse accezioni di “canone”: in quanto si riferisce ad opere assunte lungamente a modello nell’ambito di un determinato genere letterario, esso indica la “funzione paradigmatica” esercitata da quelle opere su tutta una serie di opere successive, che ne hanno “imitato” le caratteristiche, dando luogo, così, ad una “tradizione”; in quanto, invece, riguarda autori tenuti in gran conto esclusivamente nella loro epoca, il canone va inteso piuttosto come riconoscimento della loro “eminenza storica”. Di conseguenza, a Quasimodo (come anche, volendo, a Marinetti, a Cecchi, a Cardarelli, a Moravia, a Vittorini, a Pavese, a Pasolini, a Sanguineti, e persino a Eco o a Tondelli), se non si potrà restituire un seggio nel canone “normativo”, non si vorrà per questo negare i più alti riconoscimenti in sede “storica”.
La manualistica letteraria più recente ha totalmente recepito l’aggiornamento del canone narrativo. L’ultimo a essere sdoganato è stato Gadda, penalizzato a lungo, nonostante la considerazione altissima in cui era tenuto, per esempio, da Contini[9], dalla complessità di un impasto verbale lussureggiante, plurimo ed espressionistico. Ma se ancora alle soglie del nuovo millennio, proprio a fronte dell’ostracismo dato in ambito scolastico a opere come la Cognizione o il Pasticciaccio, non senza motivo Luca Curti aveva potuto paventare una resa della scuola alla discriminante della facilità di lettura[10], quel pericolo, stando almeno allo spazio che a Gadda è stato concesso nel frattempo tra i classici del romanzo novecentesco, si può considerare ormai ampiamente, se non del tutto, fugato. Un po’ diversa si presenta la situazione relativa alla seconda terna di poeti: Gozzano, Luzi e Caproni, dove la manualistica scolastica accusa, invece, un certo ritardo nell’assimilazione del canone novecentesco suggerito dagli specialisti. Di fatto, i manuali riservano per solito a questi autori uno spazio ancora esiguo, decisamente inadeguato in termini di testi proposti non meno che di estensione del profilo, segno del mancato riconoscimento della loro “funzione paradigmatica”. A Gozzano continua a nuocere, probabilmente, l’appartenenza al movimento crepuscolare, intorno a cui sopravvivono ancora, a dispetto di tanti studi chiarificatori, alcuni vecchi, radicati, pregiudizi: provincialismo, epigonismo, povertà d’ispirazione, «buone cose di pessimo gusto», inerzia, depressione, malinconia et similia. Su Luzi, analogamente, pesa l’ipoteca ermetica, quasi che dopo La barca, Avvento notturno, Un brindisi o Quaderno gotico egli non sia più riuscito a produrre alcunché di significativo, mentre semmai il suo libro più maturo resta Nel magma, una delle vette assolute della nostra poesia novecentesca, certamente lontanissimo dalla maniera “oscura” delle prime raccolte. A Caproni, infine, i riconoscimenti sono giunti relativamente tardi, anche se almeno a partire dagli anni ottanta le sue quotazioni nella borsa dei valori letterari sono salite vertiginosamente, tanto che qualcuno non esiterebbe, oggi, ad accreditarlo secondo solo a Montale. Se si spiega, perciò, almeno in parte, che la manualistica scolastica non abbia ancora recepito la grandezza del poeta del Viaggiatore cerimonioso, del Franco cacciatore e di Res amissa, la sua assunzione ai piani alti del canone lirico appare ormai non più dilazionabile.
6. QUANDO E PERCHÉ? BIOGRAFIA E “TEMPO IDEALE”
Il caso di Caproni, come d’altronde quello di molti suoi colleghi, solleva poi un altro problema, di natura squisitamente didattica: classe 1912, esordio poetico nel 1936, Caproni è stato attivo per più di cinquant’anni, attraversando con la sua produzione il secondo, il terzo e il quarto Novecento. In quale di questi tre periodi, allora, può trovare la sua sistemazione più opportuna come autore canonico? Dove inserire, concretamente, il capitolo monografico che dobbiamo riservargli in quanto “classico”? In linea generale, il criterio più sensato, e anche didatticamente funzionale, mi sembra quello di decidere, di volta in volta, con sano empirismo, sulla base della cronologia delle opere ritenute più “paradigmatiche” fra quelle realizzate dall’autore in questione e insieme più rappresentative delle coordinate letterarie di un’epoca. Non di rado, la fortuna incontrata in vita da un autore costituisce un indizio importante, perché ci avvisa, se non altro, che a un certo punto lettori e critici hanno cominciato a riconoscere esemplarmente riflessi nella sua opera il gusto, i miti e la visione del loro tempo. In altri termini, il periodo più indicato in cui alloggiare gli autori del canone “normativo” è quello in cui si sono meglio acclimatati, ovvero quello che ne ha decretato l’eminenza storica, additandoli, per l’immediato, a modelli di riferimento.
Applicando questi suggerimenti, è giocoforza assegnare Caproni al quarto Novecento (dal 1978), che ne ha consacrato la fama nel segno di una forma epigrammatica e cantabile in falsetto, mentre ad esempio Svevo e Pirandello, benché già iscritti all’albo dei letterati fin dall’ultimo scorcio di Ottocento, andrebbero collocati nel secondo Novecento (1919-1943), quando l’uno esplode, dopo la pubblicazione della Coscienza, come titolare del romanzo d’analisi, corteggiato da tutte le riviste, in Italia e all’estero, festeggiato e tradotto, mentre l’altro, dopo la rappresentazione dei Sei personaggi, viene acclamato sulle scene di mezzo mondo come maestro del teatro dialettico. Allo stesso modo, se decidiamo, come credo si debba, che Luzi, pur essendo il più dotato dei poeti ermetici, abbia toccato il proprio culmine creativo nella fase centrale della sua lunghissima carriera, quella, per intenderci, che nel riepilogo della sua opera in versi compone la sezione Nell’opera del mondo, con testi scritti tra il 1956 e il 1977, il suo posto ideale in una storia letteraria non può essere che il terzo Novecento (1944-1977), di cui egli assorbe e interpreta, con equilibrio ma anche con coraggio, date le sue origini, le spinte discorsive e i sussulti anti-novecentisti.
Così, può anche succedere che due poeti appartenenti alla medesima generazione, come Luzi e Caproni, e che si sono affacciati praticamente insieme nel piccolo Parnaso della poesia (tra La barca e Come un’allegoria, rispettive raccolte d’esordio, corre infatti non più di un anno) finiscano dentro cornici storiografiche distinte, in rapporto al verificarsi, per effetto di combinazioni e concomitanze sempre imponderabili, delle condizioni ottimali da cui scaturisce l’opera altamente rappresentativa, specchio dei tempi. D’altra parte, in letteratura la cronologia delle opere conta assai più di quella degli autori. Da questo punto di vista, la dislocazione di Caproni rispetto al suo quasi coetaneo Luzi consente di toccare con mano quanto poco rilevanti risultino i dati biografici in ordine all’ingresso di un autore nel canone e alla sua conseguente sistemazione nella mappa ragionata dei fenomeni letterari.
Ma non sempre l’arrivo del successo coincide col “tempo ideale” di un autore, con quello cioè più rispondente ai motivi di fondo della sua poetica: valga il caso, davvero emblematico, almeno come eccezione, di Saba, il cui decollo avviene, grazie principalmente a Debenedetti, solo a partire dagli anni venti, ma la cui opera rimane in sostanza, pur con sviluppi e aggiustamenti, un’espressione tipica della temperie d’inizio secolo. Non è chi non veda, infatti, almeno nell’abbassamento del linguaggio, che si pasce di “trite parole”, in nome di una “poesia onesta”, facile e chiara, spontanea, nativa, quasi disarmante, una certa affinità del poeta triestino con l’esperienza crepuscolare; mentre la componente autobiografica, in lui così pervasiva, lo apparenta alla poetica dei vociani, che hanno fatto dell’autobiografismo lirico la loro bandiera. Perciò, il “tempo ideale” di Saba, contrariamente a quello che succede di norma, è quello di Casa e campagna e di Trieste e una donna: fa tutt’uno con la sua musa giovanile; e sebbene anche in seguito il poeta abbia saputo tirar fuori da sé opere di eccezionale valore, come, per tacere di altre, Autobiografia o Il piccolo Berto, il posto che gli compete è quello di “classico” del primo Novecento (1900- 1918).
Collocare un autore canonico nel suo tempo ideale, mentre fa salvo il principio della storicità di ogni manifestazione culturale, favorisce d’altro canto un’intelligenza più profonda tanto della sua opera come del contesto in cui essa matura, che si illuminano a vicenda, almeno nella misura in cui un capolavoro, pur non essendo mai del tutto riducibile alle coordinate di un’epoca, le riverbera in trasparenza. In questo modo, inoltre, si dà piena visibilità anche al canone storico, enfatizzando la funzione sussidiaria di rappresentanza che ugualmente pertiene ai classici, ferme restando l’originalità e l’universalità del loro messaggio. I “classici”, infatti, cumulano su di sé tre prerogative complementari, tutte imprescindibili: sono contemporaneamente anime solitarie, ambasciatori dell’umanità e cittadini di una nazione; personalità fortissime, si adattano senza difficoltà, con portentoso trasformismo, a tutte le latitudini e a tutte le stagioni, senza cessare tuttavia di incarnare i tratti caratteristici di un’epoca. Con un po’ di fantasia, li potremmo perfino immaginare tutti riuniti nel “nobile castello” di dantesca memoria, a discutere con pacata gravità delle cose che riguardano l’umanità intera, ma ciascuno col proprio volto inconfondibile e vestito secondo le fogge del suo tempo e del suo paese[11].
7. LO “SPIRITO DEL SECOLO”: LA COSCIENZA DELLA CRISI E LA “SFIDA AL LABIRINTO”
Posto, dunque, che ogni autore canonico rinvia a una specifica stagione letteraria e che il Novecento è passato attraverso quattro fasi con caratteristiche molto differenti l’una dall’altra, si può parlare ancora di “spirito del secolo”? In altri termini, esiste un qualche denominatore comune che consenta di apparentare tra loro i classici del Novecento e insieme di distinguerli da tutte le famiglie letterarie pregresse? La questione è cruciale, perché mette in gioco l’idea stessa di “modernità”, o quella almeno che risulta dal canone vigente e che appare oggi il lascito più cospicuo e vitale della ricerca novecentesca in quanto esperienza sviluppata nel solco del “moderno” (o, al limite, del “postmoderno”). L’individuazione di una rete di collegamenti trasversali tra i vari autori canonici restituirebbe al Novecento, al di sopra delle sue fratture interne, un profilo riconoscibilmente unitario. In questo caso, le opere paradigmatiche rappresenterebbero le diverse risposte date, di volta in volta, a problemi e istanze perduranti. In questi problemi e in queste istanze sarebbe quindi da ravvisare la linea dell’orizzonte novecentesco, l’insieme cioè delle coordinate all’interno delle quali la letteratura contemporanea ha dovuto muoversi e trovarsi uno spazio.
A volersi addentrare nella questione quanto comporterebbe l’oggettivo rilievo dell’argomento, non basterebbe forse neanche un libro, ma bisognerà accontentarsi, in questa sede, di qualche velocissimo richiamo ad aspetti e risultanze peraltro più che noti: quel tanto, insomma, che serva a dare alla tesi, se non un corpo, almeno uno scheletro[12]. Il dato forse più vistoso che emerge dalla comparazione dei nostri dieci alfieri è sicuramente la percezione di una crisi epocale senza precedenti. La crisi è la base di partenza della condizione novecentesca e si può dire che tutta la letteratura del secolo ruoti intorno a questo asse. Tra i primi a diagnosticarla, in piena belle époque, è il Pirandello del Fu Mattia Pascal, secondo il quale una «fiera ventata» ha «spento d’un tratto tutti quei lanternoni» che avevano guidato, per lungo ordine di secoli, i passi dell’umanità, lasciando intorno «gran bujo e gran confusione»[13]. Ne risulta una diagnosi tanto lucida quanto articolata e complessa. La crisi, per cominciare, abbraccia l’intera società, il cui antico tessuto di valori appare completamente sfilacciato: viene subito in mente, al riguardo, la grottesca carrellata di furbi, di imboscati, di parassiti e di nuovi ricchi di cui Gadda stigmatizza con ferocia atrabiliare, nella Cognizione del dolore, il degrado, la corruzione, la volgarità, l’ignoranza e la tronfia ostentazione. L’epica del self-made man, della borghesia in ascesa, celebrata da tanta letteratura ottocentesca, si è spenta da un pezzo. Nel secolo dei consumi e della società di massa, del supino consenso e dell’alienazione, non c’è più posto né per la Bildung cristiana di Renzo Tramaglino, né per l’etica del lavoro di Gesualdo Motta. Quanto pesino, invece, sui singoli individui, fino a opprimerne la coscienza, i condizionamenti sociali, le consuetudini, i pregiudizi della gente, i ruoli istituzionali, gli atti compiuti e il passato di ciascuno, in una parola la “prigione della forma”, ha dimostrato ad abundantiam Pirandello, allegando, nelle novelle non meno che nei romanzi e nel teatro, una casistica quasi sterminata.
L’insorgere della crisi novecentesca viene imputato a un vuoto assiologico prima ancora che morale. In una pagina davvero emblematica del Fu Mattia Pascal, quella del «teatrino di marionette», Pirandello riconduce l’improvvisa paralisi che raggela il suo Oreste, trasformandolo ipso facto in Amleto, eroe moderno del dubbio e della tergiversazione, alla perdita del fondamento, alla scoperta disarmante di uno «strappo nel cielo di carta»[14]. Peraltro, i guasti prodotti da questo baco sono molto più estesi, generando, fra l’altro, anche la “perplessità” di Gozzano o l’inerzia dei protagonisti di Svevo. Il personaggio, in effetti, è quello che fa le spese maggiori della crisi. Sembra irreparabilmente finito il tempo in cui l’individuo, comunque andassero le cose, intendeva affermare la sua ferma volontà di essere arbitro del proprio destino: il Novecento priva il personaggio degli attributi tradizionali dell’eroe, fosse pure dell’eroe tragico alla maniera di Jacopo Ortis o di Julien Sorel, o problematico alla Raskolnikov. L’uomo moderno appare, al Calvino del Cavaliere inesistente, del tutto incapace di lottare con la «natura» come di entrare in «rapporto» con la «storia»: è una corazza vuota, «non fa più attrito con nulla»[15].
Rispetto ai canoni del realismo ottocentesco, la letteratura della crisi mostra una disposizione di gran lunga più analitica e inquietante a calarsi nelle zone d’ombra dell’essere umano, ritraendone di preferenza – non senza accanimento, a volte – le fisime, le nevrosi, le perversioni, la paralisi della volontà, i sofismi della coscienza, gli incubi e i sensi di colpa, le frustrazioni e il disadattamento, la solitudine e il malessere esistenziale. Ne esce complessivamente un’immagine d’uomo diminuita, malata, fuori squadro, alla deriva. Caso-limite, l’ipocondriaco don Gonzalo di Gadda, perseguitato dalle sue ossessioni, ma gli si avvicina anche il Vitangelo Moscarda di Pirandello, che, isolandosi dal mondo, insegue un’esistenza inconsapevole di cosa. Si pensi inoltre a quante creature spente, vive solo per modo di dire, appena al di sopra della soglia biologica, si susseguano nelle poesie di Montale, segno spettrale di un’umanità ridotta, per citare il cupo scenario di Arsenio, a «ghiacciata moltitudine di morti», presa dentro il «troppo noto / delirio […] d’immobilità»[16]. In questi “vivi morti” si consuma un ben terribile capovolgimento della linea maestra che da Omero ininterrottamente era discesa fino a Pascoli, passando fra l’altro per le tre cantiche della Commedia dantesca e l’ispirato carme Dei sepolcri, dove semmai erano stati evocati dei “morti vivi”, immaginati pieni ancora di ragioni e di slanci nelle loro dimore eterne, custodi delle memorie, traboccanti di affetti, agitati dalle passioni, più vivi insomma dei vivi. Nel Novecento, invece, non è rimasto più nulla per cui fremere, nulla da ricordare. Se il finto suicidio del mai veramente esistito, perché mai registrato all’anagrafe, Adriano Meis suggella il fallimento del sogno, accarezzato da Mattia Pascal, di una libertà senza sponde, la reincarnazione finale del personaggio all’insegna del “fu” lascia intendere che ormai la vita è solo apparente, confinata in una dimensione residuale. Il fu Mattia Pascal assurge così, all’inizio del secolo, ad archetipo dei tanti “vivi morti” che affolleranno la letteratura a venire. Del resto, non possono nascere eroi in tempi che eroici non sono: il personaggio, si tratti di Zeno Cosini piuttosto che di Vitangelo Moscarda o di don Gonzalo, è condannato in partenza a lasciarsi scorrere addosso tanti giorni vuoti; e sia quando imbocchi “la via del rifugio”, come il “sofista” Gozzano, sia quando prenda “congedo” anticipato dalla vita, come il “viaggiatore cerimonioso” di Caproni, l’unico atto volontario ancora praticabile sembra essere quello di allontanarsi dal consorzio umano, perché le luci del mondo si sono rivelate fatue e non merita spendersi e crucciarsi per un’esistenza destinata comunque a perdersi nel nulla.
Peraltro, il mondo che si riflette nelle opere più paradigmatiche (e non solo in quelle) della letteratura novecentesca presenta, non di rado, tratti largamente infernali, che contrassegnano indistintamente tanto lo stato di civiltà, nei vari aspetti indotti dalla modernizzazione, quanto quello di natura, infinitamente lontano, nonché dall’Arcadia, dai boschi rousseauiani del “buon selvaggio”. La Saison en enfer inaugurata da Rimbaud, e prima di lui da Baudelaire, ha conosciuto nel Novecento un’infinità di repliche; con una differenza capitale, però: che mentre quella dei poètes maudits aveva ancora il profilo di un’avventura sui generis, assolutamente eslege, irregolare, frutto di una scelta di vita che prevedeva le esperienze più disordinate, gli autori contemporanei la sentono piuttosto come una condanna a priori che non risparmia nessuno, una condizione di partenza che essi non hanno chiesto, ma dal cui circolo vizioso, semmai, bramano uscire. L’inferno, cioè, ha invaso la vita comune.
L’uomo del Novecento vi si trova immerso col sentimento frustrante di esserne vittima impotente, perseguitato da un male assurdo che ristagna e dal quale non sembra possibile sollevarsi: «La purga dura da sempre, senza un perché», recita un verso di Montale, nel Sogno del prigioniero, a suggello della Bufera[17]. L’esperienza di cui Rimbaud aveva circoscritto la durata a una “stagione” rischia di tramutarsi in un supplizio senza fine.
Nel paradigma del Novecento, tuttavia, non c’è soltanto la coscienza della crisi: vi si affaccia, per converso, un insopprimibile bisogno di verità, una domanda di senso, uno sforzo di dare ordine al caos, di comporre in una visione coerente e unitaria la proteiforme molteplicità dei fenomeni. Vale, in proposito, il programma espresso da Calvino nel Castello dei destini incrociati: «Quello che rimane di me è solo l’ostinazione maniaca a completare, a chiudere, a far tornare i conti»[18]. Come un Giano bifronte, il Novecento presenta due facce: al volto prostrato e contratto della crisi corrisponde quello vigile e intento della ricerca di vie d’uscita. La sfida al labirinto lanciata da Calvino in un celebre articolo del 1962 comparso sul
«Menabò»[19] è come l’icona riassuntiva di questa risposta militante, che non getta la spugna, pur consapevole dell’estrema difficoltà di vincere la «complessità del reale». In ogni caso, la verità non è mai data a priori, come un comodo possesso: quando pure si lascia catturare, è un punto d’arrivo, il frutto, spesso parziale e provvisorio, di una costruzione faticosa, di un lungo inseguimento. Un riflesso, se si vuole, di questa situazione sono l’incalzante interrogatività e il frequente dibattersi tra asserzioni e dubbi che pervadono la scrittura poetica di Luzi, almeno dal Battesimo dei nostri frammenti in avanti. L’atteggiamento è quello suggerito dal Montale degli Ossi in Fine dell’infanzia: «Giungeva anche per noi l’ora che indaga»[20]. Non di rado, poi, non si viene a capo di nulla, anche perché si cerca praticamente a tentoni, nei casi estremi non sapendo bene nemmeno “cosa” cercare e che nome dare a questa “cosa”, proprio come Caproni nella splendida raccolta postuma Res amissa.
8. IL CANONE LIRICO: LA TERZA VIA
Per stringere, ora, l’obiettivo sul canone lirico, conviene chiedersi: quali indicazioni si possono trarre dall’accostamento in un unico paradigma di Saba e Gozzano, di Ungaretti e Montale, di Luzi e Caproni? Un primo dato emerge – mi pare – in tutta evidenza: che il vecchio schema polemico, elaborato all’indomani della seconda guerra mondiale in funzione anti-ermetica, di un irriducibile antagonismo tra un “Novecento” lirico, intimo, d’impronta petrarchesca, estremamente raffinato, musicale, evocativo e incline a un’aristocratica oscurità, e un “anti-Novecento” impuro, prosastico, stonato, realistico, inclusivo, sociale, di matrice semmai dantesca, sperimentale a oltranza, provocatoriamente plurilinguistico, oggi come oggi non vale più, o ha perso comunque gran parte del suo originario mordente. Infatti, dei sei poeti canonici appena ricordati solo Ungaretti potrebbe essere eventualmente collocato in quello schema, mentre autori come Montale, Luzi o Caproni stanno bellamente a cavalcioni dei due opposti schieramenti, avendo prestato onorato servizio di qua e di là, a seconda dei momenti. E quale casacca, poi, dovremmo far indossare a Saba e a Gozzano, che hanno di fatto percorso una via intermedia, contemperando le esigenze dell’uno e dell’altro fronte?
La risultante di questa eletta congiunzione astrale sta proprio in una linea mediana, che pone ai margini del sistema le esperienze poetiche più fortemente caratterizzate, in senso orfico, neosimbolista, ermetico, non meno che ideologico o avanguardistico, mentre attira al centro, come modelli paradigmatici, i testi che meglio hanno saputo comporre le due tradizioni in una sintesi armoniosa, trovando il modo di essere moderni senza rompere clamorosamente col passato, allargando con giudizio la materia, le strutture e il vocabolario della poesia, senza sfigurarla, sulla spinta di un bisogno di autenticità psicologica ed espressiva assai più che di astratti furori e propositi di trasgressione. Sul piano formale, tutti gli autori canonici denotano un grande mestiere, anche se risolto, in genere, con felice leggerezza, quasi camuffato da grazia naturale, come consiglia l’arte più sottile e consumata. Anche per questo aspetto, quindi, il paradigma si situa nel giusto mezzo tra l’estremismo romantico-popolare dell’effusione spontanea, irriflessa, magmatica, statu nascenti, e il tecnicismo classicistico-illustre delle regole vincolanti, della letterarietà, dell’imitazione dei classici, della selezione rigorosa e del perfetto controllo delle emozioni.
Il codice di questa poesia resta prevalentemente lirico, nel senso che non vi si descrive la realtà tout court, ma piuttosto la sua visione, ruotando comunque intorno al soggetto, che filtra il mondo rappresentandolo in quanto metabolizzato in esperienza di vita, in quanto ha suscitato in lui reazioni emotive o pensose. Inoltre, questo filtro non si traduce, se non in una zona molto circoscritta del canone, in una scrittura a dominante simbolica: semmai, a metà strada tra la realtà e il simbolo, il paradigma poetico novecentesco promuove l’allegoria, che elabora il dato reale in chiave emblematica, per conferirgli il senso di una verità o di un evento o di una condizione universale, ma senza i residui inscioglibili di ambiguità e di mistero propri della cifra simbolica. Ecco, allora, il “ciarpame” di Gozzano e la “capra” di Saba, i “fiumi” di Ungaretti e la “bufera” di Montale, il “viaggio” di Luzi e la “caccia” di Caproni: epifanie, proiezioni, correlativi oggettivi in cui l’io del poeta, specchiandosi nel mondo, scopre un comune destino.
In questo modo, fra l’altro, l’assoluto si affaccia tra le maglie del quotidiano, l’esistenza non rimane preda dell’empiria, ma si apre agli orizzonti metafisici. Credente o meno, non c’è poeta canonico, nel Novecento, che non abbia fatto i conti con la morte, che non si sia posto il problema religioso, che non si sia almeno interrogato sull’esistenza di Dio; anche perché nessuno saprebbe adattarsi al “male di vivere”, viceversa urge in tutti un bisogno imperioso, insopprimibile, di salvezza, la si cerchi nel sogno come fa Gozzano o nella balia come preferisce Saba, nella “maglia rotta” cercata da Montale o nella “terra promessa” verso la quale s’incammina il “nomade” Ungaretti, nel nostos che muove i luogotenenti di Luzi o nella Res amissa di cui vuole tornare in possesso lo smemorato Caproni. La migliore poesia del secolo è quella che oscilla senza sosta, irrequieta, tra scenari apocalittici e attese palingenetiche. Ed è proprio nel suo non rassegnarsi al peggio, che essa si scosta dall’archetipo leopardiano.
9. IL CANONE NARRATIVO: TUTTO L’INVENTARIO DEL POSSIBILE
Ogni grande autore – s’intende – ha la forza di inventarsi un linguaggio originale e di costruirsi un mondo a misura del proprio singolare immaginario; non potrebbe nemmeno aspirare a costituirsi in modello, se non possedesse questa spiccata capacità. Ciò non toglie, peraltro, che anche in campo narrativo, al di là delle differenze perfino marcate tra uno scrittore e l’altro, il secolo lasci un’impronta vistosa nelle opere del paradigma. Anzitutto, scompare completamente la macchina romanzesca dell’intreccio, coi suoi colpi di scena e i segni del destino, gli snodi e le peripezie; o se viene ripristinata, come nel Fu Mattia Pascal, è unicamente per accreditare una visione accidentale delle vicende umane, tutto diventando egualmente possibile nel momento in cui il prodursi dei fatti non appare più regolato da una legge deterministica di causalità, ma soggetto alle bizzarrie del caso.
A partire da questa visione gelatinosa, non classificatoria, informe (o deforme) del reale, il romanzo del Novecento reintroduce nella rappresentazione di esso una certa dose di caos, a perturbare il cosmo ordinato delle forme tradizionali. Anzi, è proprio per soddisfare l’esigenza di un rispecchiamento integrale della vita, che vengono ripudiate, come contenitori troppo rigidi e angusti, le poetiche e le forme ereditate dal passato anche recente. Persino la nozione di “realismo” quale era venuta trionfando nel corso dell’Ottocento viene posta in stato d’accusa, come completamente inadeguata, per via della sua eccessiva soggezione al canone antico della verisimiglianza. Il calcolo delle probabilità non funziona più come discriminante per decidere della credibilità o meno del mondo inventato da un autore. Tutto diventa ammissibile, e quindi credibile, alla stessa stregua. Poco importa se un evento non ha la medesima probabilità di verificarsi di un altro: le categorie di _“ordinario” e “straordinario” vengono riassorbite nell’unica, indistinta, del “possibile”.
Del resto, nella letteratura del Novecento, come non si presta più fede ad alcuna norma o media statistica, così viene messa fortemente in discussione l’esistenza di una presunta “normalità” di natura e di comportamento. Lo Svevo della Coscienza di Zeno è convinto che gli organismi viventi, in un senso o nell’altro, siano tutti variamente malati, mentre il Pirandello di Uno, nessuno e centomila si toglie il gusto, addirittura, di scambiare le parti tra i “savii” e i “pazzi”[21]. La vita appare irriducibile alle vane costruzioni del pensiero e perfino della scienza, come alle gabbie dei luoghi comuni, delle convenzioni sociali e dell’ordine costituito. Nell’universo sconvolto della crisi moderna i casi diventano infiniti e i singoli individui non sono più visti come cosmi in miniatura. La totalità del reale viene percepita non più come il “prodotto” di una moltiplicazione all’ennesima potenza di unità sostanzialmente identiche tra loro, bensì come la “somma” incalcolabile di fenomeni disparati.
Peraltro, tutto il Novecento – si può dire – ha congiurato contro la forma romanzo, da quando Pirandello l’ha messa al servizio dell’argomentazione dialettica, deviandola verso il saggio, e lo Svevo della Coscienza di Zeno e del Vegliardo l’ha snodata in una successione di nuclei potenzialmente autonomi, a tema, agglutinabili ad libitum senza particolari scompensi. Gadda poi, precursore immediato degli scrittori dell’antiromanzo, quella forma si è visto sfuggire di mano a ogni pagina, continuamente distratto dalla sfaccettata complessità delle cose e dalla sua stessa esuberanza verbale. Nulla di strano, dunque, che anche Calvino – quello, in particolare, di Se una notte d’inverno un viaggiatore – approdi al romanzo impossibile.
La liquefazione della forma riflette una percezione del mondo come realtà complessa, enigmatica, sfuggente e priva di scopo, o di scopo scientificamente e razionalmente accertabile. Si consuma, cioè, nel romanzo contemporaneo la perdita di una visione unificante, in grado di attribuire un senso complessivo alla vita. L’inclinazione analitica si sviluppa a scapito della capacità di sintesi. Viene meno quella “prospettiva dall’alto” che era stata la spina dorsale del romanzo nell’età del suo massimo fulgore, l’io e il mondo finiscono per disgregarsi in un ammasso di frammenti, in un’anarchia di dettagli. La tradizionale compattezza della trama si dissolve in quello che il Calvino del Castello dei destini incrociati ha chiamato il «pulviscolo delle storie»[22], dove tutto si perde e si confonde. Cade perciò in disgrazia il modello ottocentesco del grande “ciclo” narrativo, a vantaggio, semmai, del cosiddetto “romanzo enciclopedico”, che supplisce alla mancanza di una visione esaustiva della realtà con la paziente, ostinata accumulazione dei dati, sorretta magari da qualche provvisoria ipotesi interpretativa, da un movimento pendolare – vedi Palomar di Calvino – di congetture e di smentite.
Ne deriva, se non altro, un’enorme dilatazione del raggio delle esperienze e degli oggetti acquisiti al repertorio letterario. Anzi, in linea di principio ogni referente viene riconosciuto degno di attenzione. Cadono insieme censure e gerarchie: non c’è più nulla di ciò che esiste che non possa entrare, a pieno titolo, nel dominio dell’arte. L’unico errore sarebbe proprio quello di escludere qualcosa: l’opera enciclopedica reclama e fagocita tutto. Il crollo delle ideologie incide con largo anticipo sulla materia della scrittura come sul linguaggio. Non ci sono più classi, né per gli oggetti né per le parole: s’instaura un regime di promiscuità, una sorta di società multietnica, in cui vige diritto di cittadinanza per tutto e per tutti, senza più distinzioni tra il reale e il fantastico, il tragico e il quotidiano, il sacro e il profano, il nobile e il plebeo, l’importante e l’effimero, il sublime e il grottesco, l’attraente e il repellente, l’onesto e l’immorale. Dentro il labirinto della crisi epocale è venuto meno l’ausilio di qualsiasi segnaletica direzionale: non resta che cercare lo sbocco alla cieca.
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[1] Come invece a buon diritto poteva fare, ad esempio, Luperini, ancora a ridosso del cambio di millennio, commentando il precedente aggiornamento dei programmi liceali, avvenuto nel 1987, quando denunciava che «le colonne d’Ercole dell’insegnamento della letteratura italiana» erano rimaste ferme, in buona sostanza, alla riforma Gentile, rispetto alla quale era stato aggiunto, tra gli autori canonici, il solo Pirandello. Cfr. ROMANO LUPERINI, Insegnare il Novecento [1998], in IDEM, Insegnare la letteratura oggi, Lecce, Manni, 20022, pp. 115-125: 115.
[2] ERIC J. HOBSBAWM, The age of extremes: the short twentieth century (1914-1991), London, Michael Joseph, 1994; traduzione italiana Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995.
[3] Alludo, ovviamente, al libro di GIULIO FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Torino, Einaudi, 1995.
[4] FAUSTO CURI, La poesia italiana nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 49.
[5] Cfr. ORESTE MACRÌ, La teoria letteraria delle generazioni, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Franco Cesati Editore, 1995.
[6] HAROLD BLOOM, The Western canon, New York-San Diego-London, Harcourt Brace & Company, 1994; traduzione italiana Il canone occidentale, Milano, Bompiani, 1996.
[7] Sia consentito rinviare, in proposito, a GIUSEPPE LANGELLA, La letteratura del Novecento e il problema del canone, nel vol. collettaneo Il Novecento a scuola, a cura di Giuseppe Langella, Pisa, ETS Edizioni, 2011, pp. 47-57: 51.
[8] Cfr. CESARE SEGRE, Il canone e la culturologia, negli Atti del convegno di studi su Lingua e letteratura italiana: istituzioni e insegnamento, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1998, pp. 19-27; riprodotto anche in «Allegoria», X (1998), 29-30, pp. 95-102.
[9] Cfr. in particolare GIANFRANCO CONTINI, Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Firenze, Sansoni, 1968, pp. 1049-1087; e IDEM, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Firenze-Milano, SansoniAccademia, 1974, pp. 424-442.
[10] L’allarme fu lanciato, da LUCA CURTI, con un articolo su Gadda, Carducci e noi. Considerazioni di fine millennio su canone e insegnamento della letteratura, in «Rassegna Lucchese», II (2000), 1, pp. 76109.
[11] Sulla nozione di “classico” mette conto segnalare: la voce Classico dell’Enciclopedia Einaudi, Torino 1978, III, pp. 192-202, dovuta a Fortini (poi in FRANCO FORTINI, Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987); ITALO CALVINO, Perché leggere i classici (1981), ora in IDEM, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, II, pp. 1816-1824; ALBERTO ASOR ROSA, Genus italicum. Sulla identità letteraria italiana nel corso del tempo, Torino, Einaudi, 1997, pp. 3-31; ANDREA BATTISTINI, Classici italiani: in ginocchio da te, in «L’Informazione Bibliografica», XXIV (1998), 4, pp. 581-593; GIUSEPPE PONTIGGIA, I contemporanei del futuro. Viaggio nei classici, Milano, Mondadori, 1998; e ILARIA MARANGONI, L’eredità dei classici nella cultura moderna e contemporanea, Roma, Edizioni Studium, 2005.
[12] Chi non si accontentasse di tanto poco, esigendo una trattazione almeno un po’ più distesa, può sempre consultare, mi auguro con qualche frutto, GIUSEPPE LANGELLA, Novecento letterario, nel vol. collettaneo Novecento, Novecenti. La cultura di un secolo, a cura di Evandro Agazzi, Brescia, Editrice La Scuola, 1999, pp. 85-116.
[13] LUIGI PIRANDELLO, Il fu Mattia Pascal, in IDEM, Tutti i romanzi, a cura di Giovanni Macchia, con la collaborazione di Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, I, pp. 485-486.
[14] Ivi, p. 467.
[15] ITALO CALVINO, Prefazione alla trilogia dei Nostri antenati, Torino, Einaudi, 1960; ora in IDEM, Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, I, 1991, pp. 1208-1219: 1216.
[16] In EUGENIO MONTALE, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1984, pp. 83-84.
[17] Ivi, p. 276.
[18] In ITALO CALVINO, Romanzi e racconti, cit., II, 1992, p. 543.
[19] In ITALO CALVINO, Saggi 1945-1985, cit., pp. 105-123.
[20] In EUGENIO MONTALE, Tutte le poesie, cit., p. 70.
[21] In LUIGI PIRANDELLO, Tutti i romanzi, cit., II, p. 820.
[22] In ITALO CALVINO, Romanzi e racconti, cit., II, 1992, p. 543.
IL SECOLO PIÙ LUNGO. PROPOSTE PER LA STORIA E IL CANONE DEL NOVECENTO
Dall'opera collettanea La didattica della letteratura nella scuola delle competenze, a cura di Giuseppe Langella, Edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 91-109
1. IL NOVECENTO ALLA DOGANA
Come tutti sappiamo, recependo un’esigenza che si era andata facendo, con gli anni, sempre più pressante, tanto le Indicazioni nazionali per i nuovi licei quanto le Linee guida per il riordino dell’istruzione tecnica e professionale anticipano al quarto anno lo studio della letteratura dell’età romantica e risorgimentale, riservando quindi l’intero anno della maturità alla letteratura postunitaria. Ora, non è chi non veda, in questa modifica da tempo attesa e invocata, un passo in avanti di fondamentale importanza, perché finalmente consentirà agli insegnanti di addentrarsi nel Novecento, invece di restare sulla soglia, come finora troppo spesso è accaduto, nella concreta pratica didattica, per fatale mancanza di tempo. Non per nulla, proprio per far posto alla letteratura contemporanea, un’articolazione simile era già stata proposta, fin dagli anni novanta, dalla commissione Brocca e in questo senso si sono mosse le varie sperimentazioni didattiche varate negli ultimi lustri. Vero è che l’inserimento di Leopardi, almeno per i Licei, nel programma del quinto anno, pericolosamente decontestualizzato e del tutto incongruente rispetto al nuovo disegno, rischia di vanificare, in parte, i benefici dell’avanzamento; comunque, nessuno potrà più lamentare, domani, l’anacronistica e discriminante esclusione della letteratura contemporanea dall’insegnamento scolastico[1]. Ad essa è stato fatto posto e un posto d’onore. Il Novecento, finalmente, non appare più, semplicemente, il fanalino di coda di una sfilata di secoli folta, illustre e gloriosa, ma un’epoca intrinsecamente ricca e affascinante, fortemente innovativa, contrassegnata da caratteri inconfondibili, generatrice di una propria tradizione e di classici di prima grandezza.
Peraltro, la manualistica scolastica da parecchi anni, ormai, ha riservato alla letteratura dell’ultimo secolo uno spazio addirittura maggiore rispetto a quello concesso agli altri: nell’ordine, per intenderci, di un tomo corposo, o più spesso di due. Ma tanto profluvio di testi e di autori arruolati sotto bandiera novecentesca non deve trarci in inganno: appena lo si guardi un po’ da vicino, bisogna riconoscere che il quadro è ancora troppo caotico e farraginoso, ben lontano dalla sistemazione desiderabile. S’impone, perciò, l’apertura urgente di un cantiere che bonifichi l’area e renda abitabile tutto il Novecento, non solo il suo segmento iniziale. Il compito potrà sembrare antipatico e ingrato, ma è indifferibile, anche perché da più di un decennio siamo ormai transitati nel terzo millennio, e compete principalmente a noi, dal momento che ci occupiamo ex professo della “modernità letteraria”. A tal fine, vorrei offrire appena qualche spunto di riflessione in ordine tanto al disegno storico del Novecento quanto al suo paradigma.
2. UN SECOLO A QUATTRO CAMPATE: UN PROBLEMA DI PERIODIZZAMENTO
Pongo, anzitutto, una inedita ma secondo me necessaria questione di periodizzamento. Un autorevole storico dell’età contemporanea come Hobsbawm ha definito il Novecento “il secolo breve”[2], avendone decapitate la testa e la coda. A suo modo di vedere, infatti, esso comincerebbe nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale, e finirebbe nel 1991, col dissolvimento dell’Unione Sovietica. Disgraziatamente, per chi si occupa di vicende letterarie, il Novecento è invece un secolo che non fa sconti: anche a non voler riaprire la vecchia (ma non oziosa) disputa sulla collocazione di Pascoli e D’Annunzio, esso appare tanto lungo e affollato e pieno di snodi decisivi, che, a voler essere aderenti ai fatti, non basta neppure suddividerlo, come si continua a fare per pigrizia, in due grandi campate, ma ne servirebbero addirittura quattro, ciascuna dominata da problemi specifici e con caratteristiche sue proprie.
Su quali basi, per cominciare, dovremmo continuare a tenere legate in un unico periodo due stagioni diametralmente opposte come l’inizio del secolo e il ventennio fascista? Nella prima – com’è noto – si consuma, baldanzosamente o col vestito a lutto, un simbolico parricidio, ad opera di una generazione letteraria che, come un genio guastatori, nel giro di pochi anni riesce a smantellare un’intera tradizione, dove la seconda, viceversa, inasta la bandiera del “ritorno all’ordine”; l’una dipinge di preferenza la realtà quotidiana, la colga nel ritmo febbrile della città moderna piuttosto che nella vita annoiata e inerte della provincia, mentre l’altra sconfina continuamente oltre la soglia dell’esperienza comune, in direzione surreale o magica o fantastica; l’una ha aperto le porte della poesia a ogni sorta di argomenti, rinunciando alla sua proverbiale aura di purezza per tuffarla in mezzo alla gente e contaminarla con la prosa, l’altra, facendo appello a un’idea sacrale, quasi mistica, ispirata, della poesia, ha ristabilito le distanze, arroccandosi nella torre d’avorio di un linguaggio sceltissimo, eletto, distillato, per iniziati, e officiando i culti di una religione ora orfica, ora elegiaca, ora ermetica. Allo stesso modo, non basta un unico contenitore per render conto dell’ennesima inversione a U compiuta dalla nostra letteratura dal secondo dopoguerra a oggi, passando dalla tensione utopica degli anni della ricostruzione alla più recente coscienza della sua «condizione postuma»[3], dall’impegno militante al gioco combinatorio, dall’oltranza ideologica alla citazione postmoderna, dalle agghiaccianti profezie apocalittiche al gusto truculento dei
‘cannibali’.
Dovremmo insomma abituarci a parlare di un primo, di un secondo, di un terzo e di un quarto Novecento, additando nella ‘Grande Guerra’, nel crollo del regime fascista e negli anni di piombo i tre grandi spartiacque della storia anche letteraria del nostro Paese. L’articolazione del Novecento in tre segmenti, adottata da qualcuno, con spostamento del secondo discrimine dal 1943 al 1956, mi pare invece una soluzione ideologica storiograficamente inaffidabile, perché se da un lato, in maniera del tutto aberrante, mette insieme, a monte, la letteratura del ‘ventennio’ con quella del democratico dopoguerra, dall’altro accoppia, a valle, con procedura altrettanto forzata, impegno e disimpegno, neoavanguardia e postmoderno.
3. REVISIONI, BONIFICHE E DISBOSCAMENTI: STORICIZZARE IL NOVECENTO
Ci sarebbe poi da fare, entrando nel merito, un lavoro di più puntuale storicizzazione dei fenomeni letterari, di più esatta circoscrizione delle rispettive aree d’influenza e di migliore determinazione delle poetiche, tenendo conto, magari, delle risultanze più aggiornate degli studi specialistici. Limiterò l’esemplificazione a qualche caso macroscopico:
- Nel panorama della poesia italiana di primo Novecento, accanto ai collaudatissimi capitoli sui crepuscolari, i futuristi e i vociani, bisognerebbe decidersi a introdurre una quarta categoria, per render giustizia, in particolare, alle ricerche, tutt’altro che marginali, di un Lucini, di un Govoni o di un Palazzeschi, che altrove stanno a pigione. Sulla scorta di una preziosa indicazione di Fausto Curi[4], propongo di chiamare “anarchici” gli esponenti di questa avanguardia non più che fiancheggiatrice, e solo per un tratto, e non in partenza, del futurismo marinettiano, con riferimento alla peculiarità della sua rivolta contro i valori letterari e l’ordine costituito.
- Occorre assolutamente correggere quel fenomeno di trascinamento tematico per cui la trattazione delle avanguardie europee viene abbinata a quella del nostro Futurismo, trascurando del tutto la diversa dislocazione cronologica dei vari Dadaismo, Surrealismo ed Espressionismo, che si spingono ben dentro gli anni venti e perfino più in là, al contrario del Futurismo, che ha già completamente esaurito con la prima guerra mondiale la sua carica propulsiva. Un simile accorpamento, infatti, impedisce di cogliere l’anomalia della vicenda italiana rispetto al decorso delle arti europee e di toccare con mano, quindi, il condizionamento operato sulle nostre lettere dalla crisi dello Stato liberale e dalla rapida ascesa del Fascismo, per cui, mentre in Europa si moltiplicano gli esperimenti di segno radicalmente innovativo, da noi si instaura un clima da rappel à l’ordre. Una volta tanto, essere strabici gioverebbe non poco a una corretta messa a fuoco delle congiunture storiche, quando esse, come in questo caso, sono nettamente divaricate.
- Sarebbe tempo, poi, di impiegare con più parsimonia, e solo a ragion veduta, certe abusatissime etichette, come “Ermetismo”, con cui si pretende di designare, secondo una prassi obsoleta quanto illegittima, tutta indistintamente la produzione poetica tra le due guerre, facendo di ogni erba un fascio, quasi che tra lirica pura, orfismo, poesia elegiaca ed ermetismo fiorentino non sussista alcuna differenza sostanziale, né di conseguenza fra autori come Saba, Ungaretti, Onofri, Montale, Quasimodo, Betocchi, Gatto o Luzi. Analoga revisione andrebbe operata sul termine “Neorealismo”, logoro anch’esso, a forza di essere tirato di qua e di là come un elastico, quando è stato soltanto una componente, e nemmeno delle più consapevoli e durature e vitali e significative, almeno in campo letterario, dell’impegno civile che ha contraddistinto quasi tutte le esperienze culturali e artistiche del terzo Novecento.
4. LA NECESSITÀ DI FISSARE UN PARADIGMA
Ma quali sono, dunque, gli autori più rappresentativi del Novecento, quelli che, godendo del più vasto consenso, sono comunemente considerati, oggi, i “classici” del secolo da poco trascorso? Le Linee guida ad uso degli Istituti tecnici e professionali su questo non si pronunciano, mentre le Indicazioni nazionali per i licei affacciano una rosa di cinque nomi: Saba, Ungaretti e Montale per la poesia, Svevo e Pirandello per la prosa. Non si può non osservare, tuttavia, che dal punto di vista anagrafico perfino il più giovane di questi autori, vale a dire Montale, è nato nell’Ottocento e che insomma il canone ministeriale, per rifarsi alla classificazione a suo tempo proposta da Macrì[5], non si spinge al di là della “seconda generazione”. In altri termini, se la cinquina individuata è sicuramente incontestabile, soddisfa però solo per metà l’esigenza di stabilire il canone del Novecento, in quanto appare cronologicamente schiacciata sui primi decenni del secolo e in grado, quindi, di rappresentarne unicamente le fondazioni, lasciandone invece completamente scoperti gli sviluppi. Ma su tutto ciò che viene dopo, il giudizio non può restare interlocutorio, sospeso, perché, così facendo, complici la crescita esponenziale della produzione letteraria e la ricerca spasmodica, tipica del “moderno”, dell’originalità a tutti i costi, si rafforzerebbe quella visione del Novecento come “età caotica”, già deprecata da Harold Bloom nel suo Canone occidentale[6], cui nessuno, e tanto meno la scuola, può rassegnarsi. In quanto agenzia educativa, la scuola è tenuta infatti a ordinare e selezionare i contenuti da trasmettere. Al modello anarchico della rete, in cui le informazioni, vere o presunte, importanti o insignificanti, locali o planetarie, si trovano tutte sullo stesso piano, la scuola deve poter opporre un modello gerarchico, aperto ma necessariamente discriminante. Rinunciando a scegliere, a distinguere, a classificare, verrebbe meno a un preciso dovere istituzionale, che nel caso della letteratura ha poi strettamente a che fare con la trasmissione, a intere generazioni di giovani, di un patrimonio di civiltà e di umana sapienza. A queste obiezioni, fin troppo facili, si può ovviare in un unico modo: avendo il coraggio di fissare un paradigma in grado di coprire e rappresentare tutto il Novecento, compresi gli ultimi decenni. Si rende perciò necessario un aggiornamento ulteriore, o piuttosto un completamento, del canone.
5. AGGIORNAMENTO DEL CANONE
A tal fine, credo si possa pacificamente affiancare, agli autori di cui sopra, una seconda cinquina perfettamente simmetrica, a Svevo e Pirandello aggiungendo, per la narrativa, Gadda e Calvino, alla triade Saba Ungaretti Montale aggregando un altro terzetto di poeti: Gozzano, Luzi e Caproni. Per intenderci, se l’inserimento di Gozzano vale soltanto a colmare una lacuna non più ammissibile nel canone delle fondazioni novecentesche, le altre quattro integrazioni spostano significativamente in avanti la soglia anagrafica degli autori canonici, dando così una rappresentanza anche al terzo e al quarto Novecento.
Non che la letteratura italiana dell’ultimo secolo non abbia espresso, nella narrativa come nella lirica, parecchi altri autori di ottimo livello, ma allungare ulteriormente la lista andrebbe a scapito della stessa paradigmaticità del canone. Dieci classici per un solo secolo costituiscono già, di per sé, un numero esorbitante, quando appena si pensi che perfino l’Ottocento, il più ricco di autori canonici in tutto l’arco della nostra lunga tradizione letteraria, ne conta appena sei (Foscolo, Manzoni, Leopardi, Verga, Pascoli e D’Annunzio). Un canone o è selettivo, o non è. Concepire costellazioni di autori troppo folte sarebbe lo stesso che ammettere implicitamente la mancanza di veri e propri classici, capaci di brillare con un’intensità speciale anche nel più affollato spicchio di firmamento. Bisogna prendere atto che non tutti gli autori, anche se bravi, possiedono la medesima forza, non tutti sprigionano la medesima luce, non tutti riscuotono unanime, incondizionata, ammirazione.
È successo, inoltre, nel Novecento come nei secoli precedenti, che autori trovatisi, in un determinato periodo, al centro del canone ne siano poi usciti. Particolarmente sintomatico, in tal senso, è il caso toccato a Quasimodo, due volte sugli scudi, prima, negli anni trenta, come maestro della lirica pura, quindi, dopo la guerra, come poeta di vena epica e civile, che neppure il conferimento del premio Nobel, nel 1959, ha preservato dalla perdita di una posizione dominante, una volta esauritesi le ragioni che avevano alimentato le poetiche a lui più congeniali[7]. Del resto, sorte simile era toccata, prima che a lui, anche a Metastasio, a Monti o a Carducci, grandi dominatori, in vita, della scena letteraria, ma caduti rapidamente in disgrazia dopo la morte, se non addirittura nell’estremo declino, per il radicale mutamento dell’orizzonte letterario prodottosi nel frattempo. Occorre distinguere, perciò, con Segre[8], tra due diverse accezioni di “canone”: in quanto si riferisce ad opere assunte lungamente a modello nell’ambito di un determinato genere letterario, esso indica la “funzione paradigmatica” esercitata da quelle opere su tutta una serie di opere successive, che ne hanno “imitato” le caratteristiche, dando luogo, così, ad una “tradizione”; in quanto, invece, riguarda autori tenuti in gran conto esclusivamente nella loro epoca, il canone va inteso piuttosto come riconoscimento della loro “eminenza storica”. Di conseguenza, a Quasimodo (come anche, volendo, a Marinetti, a Cecchi, a Cardarelli, a Moravia, a Vittorini, a Pavese, a Pasolini, a Sanguineti, e persino a Eco o a Tondelli), se non si potrà restituire un seggio nel canone “normativo”, non si vorrà per questo negare i più alti riconoscimenti in sede “storica”.
La manualistica letteraria più recente ha totalmente recepito l’aggiornamento del canone narrativo. L’ultimo a essere sdoganato è stato Gadda, penalizzato a lungo, nonostante la considerazione altissima in cui era tenuto, per esempio, da Contini[9], dalla complessità di un impasto verbale lussureggiante, plurimo ed espressionistico. Ma se ancora alle soglie del nuovo millennio, proprio a fronte dell’ostracismo dato in ambito scolastico a opere come la Cognizione o il Pasticciaccio, non senza motivo Luca Curti aveva potuto paventare una resa della scuola alla discriminante della facilità di lettura[10], quel pericolo, stando almeno allo spazio che a Gadda è stato concesso nel frattempo tra i classici del romanzo novecentesco, si può considerare ormai ampiamente, se non del tutto, fugato. Un po’ diversa si presenta la situazione relativa alla seconda terna di poeti: Gozzano, Luzi e Caproni, dove la manualistica scolastica accusa, invece, un certo ritardo nell’assimilazione del canone novecentesco suggerito dagli specialisti. Di fatto, i manuali riservano per solito a questi autori uno spazio ancora esiguo, decisamente inadeguato in termini di testi proposti non meno che di estensione del profilo, segno del mancato riconoscimento della loro “funzione paradigmatica”. A Gozzano continua a nuocere, probabilmente, l’appartenenza al movimento crepuscolare, intorno a cui sopravvivono ancora, a dispetto di tanti studi chiarificatori, alcuni vecchi, radicati, pregiudizi: provincialismo, epigonismo, povertà d’ispirazione, «buone cose di pessimo gusto», inerzia, depressione, malinconia et similia. Su Luzi, analogamente, pesa l’ipoteca ermetica, quasi che dopo La barca, Avvento notturno, Un brindisi o Quaderno gotico egli non sia più riuscito a produrre alcunché di significativo, mentre semmai il suo libro più maturo resta Nel magma, una delle vette assolute della nostra poesia novecentesca, certamente lontanissimo dalla maniera “oscura” delle prime raccolte. A Caproni, infine, i riconoscimenti sono giunti relativamente tardi, anche se almeno a partire dagli anni ottanta le sue quotazioni nella borsa dei valori letterari sono salite vertiginosamente, tanto che qualcuno non esiterebbe, oggi, ad accreditarlo secondo solo a Montale. Se si spiega, perciò, almeno in parte, che la manualistica scolastica non abbia ancora recepito la grandezza del poeta del Viaggiatore cerimonioso, del Franco cacciatore e di Res amissa, la sua assunzione ai piani alti del canone lirico appare ormai non più dilazionabile.
6. QUANDO E PERCHÉ? BIOGRAFIA E “TEMPO IDEALE”
Il caso di Caproni, come d’altronde quello di molti suoi colleghi, solleva poi un altro problema, di natura squisitamente didattica: classe 1912, esordio poetico nel 1936, Caproni è stato attivo per più di cinquant’anni, attraversando con la sua produzione il secondo, il terzo e il quarto Novecento. In quale di questi tre periodi, allora, può trovare la sua sistemazione più opportuna come autore canonico? Dove inserire, concretamente, il capitolo monografico che dobbiamo riservargli in quanto “classico”? In linea generale, il criterio più sensato, e anche didatticamente funzionale, mi sembra quello di decidere, di volta in volta, con sano empirismo, sulla base della cronologia delle opere ritenute più “paradigmatiche” fra quelle realizzate dall’autore in questione e insieme più rappresentative delle coordinate letterarie di un’epoca. Non di rado, la fortuna incontrata in vita da un autore costituisce un indizio importante, perché ci avvisa, se non altro, che a un certo punto lettori e critici hanno cominciato a riconoscere esemplarmente riflessi nella sua opera il gusto, i miti e la visione del loro tempo. In altri termini, il periodo più indicato in cui alloggiare gli autori del canone “normativo” è quello in cui si sono meglio acclimatati, ovvero quello che ne ha decretato l’eminenza storica, additandoli, per l’immediato, a modelli di riferimento.
Applicando questi suggerimenti, è giocoforza assegnare Caproni al quarto Novecento (dal 1978), che ne ha consacrato la fama nel segno di una forma epigrammatica e cantabile in falsetto, mentre ad esempio Svevo e Pirandello, benché già iscritti all’albo dei letterati fin dall’ultimo scorcio di Ottocento, andrebbero collocati nel secondo Novecento (1919-1943), quando l’uno esplode, dopo la pubblicazione della Coscienza, come titolare del romanzo d’analisi, corteggiato da tutte le riviste, in Italia e all’estero, festeggiato e tradotto, mentre l’altro, dopo la rappresentazione dei Sei personaggi, viene acclamato sulle scene di mezzo mondo come maestro del teatro dialettico. Allo stesso modo, se decidiamo, come credo si debba, che Luzi, pur essendo il più dotato dei poeti ermetici, abbia toccato il proprio culmine creativo nella fase centrale della sua lunghissima carriera, quella, per intenderci, che nel riepilogo della sua opera in versi compone la sezione Nell’opera del mondo, con testi scritti tra il 1956 e il 1977, il suo posto ideale in una storia letteraria non può essere che il terzo Novecento (1944-1977), di cui egli assorbe e interpreta, con equilibrio ma anche con coraggio, date le sue origini, le spinte discorsive e i sussulti anti-novecentisti.
Così, può anche succedere che due poeti appartenenti alla medesima generazione, come Luzi e Caproni, e che si sono affacciati praticamente insieme nel piccolo Parnaso della poesia (tra La barca e Come un’allegoria, rispettive raccolte d’esordio, corre infatti non più di un anno) finiscano dentro cornici storiografiche distinte, in rapporto al verificarsi, per effetto di combinazioni e concomitanze sempre imponderabili, delle condizioni ottimali da cui scaturisce l’opera altamente rappresentativa, specchio dei tempi. D’altra parte, in letteratura la cronologia delle opere conta assai più di quella degli autori. Da questo punto di vista, la dislocazione di Caproni rispetto al suo quasi coetaneo Luzi consente di toccare con mano quanto poco rilevanti risultino i dati biografici in ordine all’ingresso di un autore nel canone e alla sua conseguente sistemazione nella mappa ragionata dei fenomeni letterari.
Ma non sempre l’arrivo del successo coincide col “tempo ideale” di un autore, con quello cioè più rispondente ai motivi di fondo della sua poetica: valga il caso, davvero emblematico, almeno come eccezione, di Saba, il cui decollo avviene, grazie principalmente a Debenedetti, solo a partire dagli anni venti, ma la cui opera rimane in sostanza, pur con sviluppi e aggiustamenti, un’espressione tipica della temperie d’inizio secolo. Non è chi non veda, infatti, almeno nell’abbassamento del linguaggio, che si pasce di “trite parole”, in nome di una “poesia onesta”, facile e chiara, spontanea, nativa, quasi disarmante, una certa affinità del poeta triestino con l’esperienza crepuscolare; mentre la componente autobiografica, in lui così pervasiva, lo apparenta alla poetica dei vociani, che hanno fatto dell’autobiografismo lirico la loro bandiera. Perciò, il “tempo ideale” di Saba, contrariamente a quello che succede di norma, è quello di Casa e campagna e di Trieste e una donna: fa tutt’uno con la sua musa giovanile; e sebbene anche in seguito il poeta abbia saputo tirar fuori da sé opere di eccezionale valore, come, per tacere di altre, Autobiografia o Il piccolo Berto, il posto che gli compete è quello di “classico” del primo Novecento (1900- 1918).
Collocare un autore canonico nel suo tempo ideale, mentre fa salvo il principio della storicità di ogni manifestazione culturale, favorisce d’altro canto un’intelligenza più profonda tanto della sua opera come del contesto in cui essa matura, che si illuminano a vicenda, almeno nella misura in cui un capolavoro, pur non essendo mai del tutto riducibile alle coordinate di un’epoca, le riverbera in trasparenza. In questo modo, inoltre, si dà piena visibilità anche al canone storico, enfatizzando la funzione sussidiaria di rappresentanza che ugualmente pertiene ai classici, ferme restando l’originalità e l’universalità del loro messaggio. I “classici”, infatti, cumulano su di sé tre prerogative complementari, tutte imprescindibili: sono contemporaneamente anime solitarie, ambasciatori dell’umanità e cittadini di una nazione; personalità fortissime, si adattano senza difficoltà, con portentoso trasformismo, a tutte le latitudini e a tutte le stagioni, senza cessare tuttavia di incarnare i tratti caratteristici di un’epoca. Con un po’ di fantasia, li potremmo perfino immaginare tutti riuniti nel “nobile castello” di dantesca memoria, a discutere con pacata gravità delle cose che riguardano l’umanità intera, ma ciascuno col proprio volto inconfondibile e vestito secondo le fogge del suo tempo e del suo paese[11].
7. LO “SPIRITO DEL SECOLO”: LA COSCIENZA DELLA CRISI E LA “SFIDA AL LABIRINTO”
Posto, dunque, che ogni autore canonico rinvia a una specifica stagione letteraria e che il Novecento è passato attraverso quattro fasi con caratteristiche molto differenti l’una dall’altra, si può parlare ancora di “spirito del secolo”? In altri termini, esiste un qualche denominatore comune che consenta di apparentare tra loro i classici del Novecento e insieme di distinguerli da tutte le famiglie letterarie pregresse? La questione è cruciale, perché mette in gioco l’idea stessa di “modernità”, o quella almeno che risulta dal canone vigente e che appare oggi il lascito più cospicuo e vitale della ricerca novecentesca in quanto esperienza sviluppata nel solco del “moderno” (o, al limite, del “postmoderno”). L’individuazione di una rete di collegamenti trasversali tra i vari autori canonici restituirebbe al Novecento, al di sopra delle sue fratture interne, un profilo riconoscibilmente unitario. In questo caso, le opere paradigmatiche rappresenterebbero le diverse risposte date, di volta in volta, a problemi e istanze perduranti. In questi problemi e in queste istanze sarebbe quindi da ravvisare la linea dell’orizzonte novecentesco, l’insieme cioè delle coordinate all’interno delle quali la letteratura contemporanea ha dovuto muoversi e trovarsi uno spazio.
A volersi addentrare nella questione quanto comporterebbe l’oggettivo rilievo dell’argomento, non basterebbe forse neanche un libro, ma bisognerà accontentarsi, in questa sede, di qualche velocissimo richiamo ad aspetti e risultanze peraltro più che noti: quel tanto, insomma, che serva a dare alla tesi, se non un corpo, almeno uno scheletro[12]. Il dato forse più vistoso che emerge dalla comparazione dei nostri dieci alfieri è sicuramente la percezione di una crisi epocale senza precedenti. La crisi è la base di partenza della condizione novecentesca e si può dire che tutta la letteratura del secolo ruoti intorno a questo asse. Tra i primi a diagnosticarla, in piena belle époque, è il Pirandello del Fu Mattia Pascal, secondo il quale una «fiera ventata» ha «spento d’un tratto tutti quei lanternoni» che avevano guidato, per lungo ordine di secoli, i passi dell’umanità, lasciando intorno «gran bujo e gran confusione»[13]. Ne risulta una diagnosi tanto lucida quanto articolata e complessa. La crisi, per cominciare, abbraccia l’intera società, il cui antico tessuto di valori appare completamente sfilacciato: viene subito in mente, al riguardo, la grottesca carrellata di furbi, di imboscati, di parassiti e di nuovi ricchi di cui Gadda stigmatizza con ferocia atrabiliare, nella Cognizione del dolore, il degrado, la corruzione, la volgarità, l’ignoranza e la tronfia ostentazione. L’epica del self-made man, della borghesia in ascesa, celebrata da tanta letteratura ottocentesca, si è spenta da un pezzo. Nel secolo dei consumi e della società di massa, del supino consenso e dell’alienazione, non c’è più posto né per la Bildung cristiana di Renzo Tramaglino, né per l’etica del lavoro di Gesualdo Motta. Quanto pesino, invece, sui singoli individui, fino a opprimerne la coscienza, i condizionamenti sociali, le consuetudini, i pregiudizi della gente, i ruoli istituzionali, gli atti compiuti e il passato di ciascuno, in una parola la “prigione della forma”, ha dimostrato ad abundantiam Pirandello, allegando, nelle novelle non meno che nei romanzi e nel teatro, una casistica quasi sterminata.
L’insorgere della crisi novecentesca viene imputato a un vuoto assiologico prima ancora che morale. In una pagina davvero emblematica del Fu Mattia Pascal, quella del «teatrino di marionette», Pirandello riconduce l’improvvisa paralisi che raggela il suo Oreste, trasformandolo ipso facto in Amleto, eroe moderno del dubbio e della tergiversazione, alla perdita del fondamento, alla scoperta disarmante di uno «strappo nel cielo di carta»[14]. Peraltro, i guasti prodotti da questo baco sono molto più estesi, generando, fra l’altro, anche la “perplessità” di Gozzano o l’inerzia dei protagonisti di Svevo. Il personaggio, in effetti, è quello che fa le spese maggiori della crisi. Sembra irreparabilmente finito il tempo in cui l’individuo, comunque andassero le cose, intendeva affermare la sua ferma volontà di essere arbitro del proprio destino: il Novecento priva il personaggio degli attributi tradizionali dell’eroe, fosse pure dell’eroe tragico alla maniera di Jacopo Ortis o di Julien Sorel, o problematico alla Raskolnikov. L’uomo moderno appare, al Calvino del Cavaliere inesistente, del tutto incapace di lottare con la «natura» come di entrare in «rapporto» con la «storia»: è una corazza vuota, «non fa più attrito con nulla»[15].
Rispetto ai canoni del realismo ottocentesco, la letteratura della crisi mostra una disposizione di gran lunga più analitica e inquietante a calarsi nelle zone d’ombra dell’essere umano, ritraendone di preferenza – non senza accanimento, a volte – le fisime, le nevrosi, le perversioni, la paralisi della volontà, i sofismi della coscienza, gli incubi e i sensi di colpa, le frustrazioni e il disadattamento, la solitudine e il malessere esistenziale. Ne esce complessivamente un’immagine d’uomo diminuita, malata, fuori squadro, alla deriva. Caso-limite, l’ipocondriaco don Gonzalo di Gadda, perseguitato dalle sue ossessioni, ma gli si avvicina anche il Vitangelo Moscarda di Pirandello, che, isolandosi dal mondo, insegue un’esistenza inconsapevole di cosa. Si pensi inoltre a quante creature spente, vive solo per modo di dire, appena al di sopra della soglia biologica, si susseguano nelle poesie di Montale, segno spettrale di un’umanità ridotta, per citare il cupo scenario di Arsenio, a «ghiacciata moltitudine di morti», presa dentro il «troppo noto / delirio […] d’immobilità»[16]. In questi “vivi morti” si consuma un ben terribile capovolgimento della linea maestra che da Omero ininterrottamente era discesa fino a Pascoli, passando fra l’altro per le tre cantiche della Commedia dantesca e l’ispirato carme Dei sepolcri, dove semmai erano stati evocati dei “morti vivi”, immaginati pieni ancora di ragioni e di slanci nelle loro dimore eterne, custodi delle memorie, traboccanti di affetti, agitati dalle passioni, più vivi insomma dei vivi. Nel Novecento, invece, non è rimasto più nulla per cui fremere, nulla da ricordare. Se il finto suicidio del mai veramente esistito, perché mai registrato all’anagrafe, Adriano Meis suggella il fallimento del sogno, accarezzato da Mattia Pascal, di una libertà senza sponde, la reincarnazione finale del personaggio all’insegna del “fu” lascia intendere che ormai la vita è solo apparente, confinata in una dimensione residuale. Il fu Mattia Pascal assurge così, all’inizio del secolo, ad archetipo dei tanti “vivi morti” che affolleranno la letteratura a venire. Del resto, non possono nascere eroi in tempi che eroici non sono: il personaggio, si tratti di Zeno Cosini piuttosto che di Vitangelo Moscarda o di don Gonzalo, è condannato in partenza a lasciarsi scorrere addosso tanti giorni vuoti; e sia quando imbocchi “la via del rifugio”, come il “sofista” Gozzano, sia quando prenda “congedo” anticipato dalla vita, come il “viaggiatore cerimonioso” di Caproni, l’unico atto volontario ancora praticabile sembra essere quello di allontanarsi dal consorzio umano, perché le luci del mondo si sono rivelate fatue e non merita spendersi e crucciarsi per un’esistenza destinata comunque a perdersi nel nulla.
Peraltro, il mondo che si riflette nelle opere più paradigmatiche (e non solo in quelle) della letteratura novecentesca presenta, non di rado, tratti largamente infernali, che contrassegnano indistintamente tanto lo stato di civiltà, nei vari aspetti indotti dalla modernizzazione, quanto quello di natura, infinitamente lontano, nonché dall’Arcadia, dai boschi rousseauiani del “buon selvaggio”. La Saison en enfer inaugurata da Rimbaud, e prima di lui da Baudelaire, ha conosciuto nel Novecento un’infinità di repliche; con una differenza capitale, però: che mentre quella dei poètes maudits aveva ancora il profilo di un’avventura sui generis, assolutamente eslege, irregolare, frutto di una scelta di vita che prevedeva le esperienze più disordinate, gli autori contemporanei la sentono piuttosto come una condanna a priori che non risparmia nessuno, una condizione di partenza che essi non hanno chiesto, ma dal cui circolo vizioso, semmai, bramano uscire. L’inferno, cioè, ha invaso la vita comune.
L’uomo del Novecento vi si trova immerso col sentimento frustrante di esserne vittima impotente, perseguitato da un male assurdo che ristagna e dal quale non sembra possibile sollevarsi: «La purga dura da sempre, senza un perché», recita un verso di Montale, nel Sogno del prigioniero, a suggello della Bufera[17]. L’esperienza di cui Rimbaud aveva circoscritto la durata a una “stagione” rischia di tramutarsi in un supplizio senza fine.
Nel paradigma del Novecento, tuttavia, non c’è soltanto la coscienza della crisi: vi si affaccia, per converso, un insopprimibile bisogno di verità, una domanda di senso, uno sforzo di dare ordine al caos, di comporre in una visione coerente e unitaria la proteiforme molteplicità dei fenomeni. Vale, in proposito, il programma espresso da Calvino nel Castello dei destini incrociati: «Quello che rimane di me è solo l’ostinazione maniaca a completare, a chiudere, a far tornare i conti»[18]. Come un Giano bifronte, il Novecento presenta due facce: al volto prostrato e contratto della crisi corrisponde quello vigile e intento della ricerca di vie d’uscita. La sfida al labirinto lanciata da Calvino in un celebre articolo del 1962 comparso sul
«Menabò»[19] è come l’icona riassuntiva di questa risposta militante, che non getta la spugna, pur consapevole dell’estrema difficoltà di vincere la «complessità del reale». In ogni caso, la verità non è mai data a priori, come un comodo possesso: quando pure si lascia catturare, è un punto d’arrivo, il frutto, spesso parziale e provvisorio, di una costruzione faticosa, di un lungo inseguimento. Un riflesso, se si vuole, di questa situazione sono l’incalzante interrogatività e il frequente dibattersi tra asserzioni e dubbi che pervadono la scrittura poetica di Luzi, almeno dal Battesimo dei nostri frammenti in avanti. L’atteggiamento è quello suggerito dal Montale degli Ossi in Fine dell’infanzia: «Giungeva anche per noi l’ora che indaga»[20]. Non di rado, poi, non si viene a capo di nulla, anche perché si cerca praticamente a tentoni, nei casi estremi non sapendo bene nemmeno “cosa” cercare e che nome dare a questa “cosa”, proprio come Caproni nella splendida raccolta postuma Res amissa.
8. IL CANONE LIRICO: LA TERZA VIA
Per stringere, ora, l’obiettivo sul canone lirico, conviene chiedersi: quali indicazioni si possono trarre dall’accostamento in un unico paradigma di Saba e Gozzano, di Ungaretti e Montale, di Luzi e Caproni? Un primo dato emerge – mi pare – in tutta evidenza: che il vecchio schema polemico, elaborato all’indomani della seconda guerra mondiale in funzione anti-ermetica, di un irriducibile antagonismo tra un “Novecento” lirico, intimo, d’impronta petrarchesca, estremamente raffinato, musicale, evocativo e incline a un’aristocratica oscurità, e un “anti-Novecento” impuro, prosastico, stonato, realistico, inclusivo, sociale, di matrice semmai dantesca, sperimentale a oltranza, provocatoriamente plurilinguistico, oggi come oggi non vale più, o ha perso comunque gran parte del suo originario mordente. Infatti, dei sei poeti canonici appena ricordati solo Ungaretti potrebbe essere eventualmente collocato in quello schema, mentre autori come Montale, Luzi o Caproni stanno bellamente a cavalcioni dei due opposti schieramenti, avendo prestato onorato servizio di qua e di là, a seconda dei momenti. E quale casacca, poi, dovremmo far indossare a Saba e a Gozzano, che hanno di fatto percorso una via intermedia, contemperando le esigenze dell’uno e dell’altro fronte?
La risultante di questa eletta congiunzione astrale sta proprio in una linea mediana, che pone ai margini del sistema le esperienze poetiche più fortemente caratterizzate, in senso orfico, neosimbolista, ermetico, non meno che ideologico o avanguardistico, mentre attira al centro, come modelli paradigmatici, i testi che meglio hanno saputo comporre le due tradizioni in una sintesi armoniosa, trovando il modo di essere moderni senza rompere clamorosamente col passato, allargando con giudizio la materia, le strutture e il vocabolario della poesia, senza sfigurarla, sulla spinta di un bisogno di autenticità psicologica ed espressiva assai più che di astratti furori e propositi di trasgressione. Sul piano formale, tutti gli autori canonici denotano un grande mestiere, anche se risolto, in genere, con felice leggerezza, quasi camuffato da grazia naturale, come consiglia l’arte più sottile e consumata. Anche per questo aspetto, quindi, il paradigma si situa nel giusto mezzo tra l’estremismo romantico-popolare dell’effusione spontanea, irriflessa, magmatica, statu nascenti, e il tecnicismo classicistico-illustre delle regole vincolanti, della letterarietà, dell’imitazione dei classici, della selezione rigorosa e del perfetto controllo delle emozioni.
Il codice di questa poesia resta prevalentemente lirico, nel senso che non vi si descrive la realtà tout court, ma piuttosto la sua visione, ruotando comunque intorno al soggetto, che filtra il mondo rappresentandolo in quanto metabolizzato in esperienza di vita, in quanto ha suscitato in lui reazioni emotive o pensose. Inoltre, questo filtro non si traduce, se non in una zona molto circoscritta del canone, in una scrittura a dominante simbolica: semmai, a metà strada tra la realtà e il simbolo, il paradigma poetico novecentesco promuove l’allegoria, che elabora il dato reale in chiave emblematica, per conferirgli il senso di una verità o di un evento o di una condizione universale, ma senza i residui inscioglibili di ambiguità e di mistero propri della cifra simbolica. Ecco, allora, il “ciarpame” di Gozzano e la “capra” di Saba, i “fiumi” di Ungaretti e la “bufera” di Montale, il “viaggio” di Luzi e la “caccia” di Caproni: epifanie, proiezioni, correlativi oggettivi in cui l’io del poeta, specchiandosi nel mondo, scopre un comune destino.
In questo modo, fra l’altro, l’assoluto si affaccia tra le maglie del quotidiano, l’esistenza non rimane preda dell’empiria, ma si apre agli orizzonti metafisici. Credente o meno, non c’è poeta canonico, nel Novecento, che non abbia fatto i conti con la morte, che non si sia posto il problema religioso, che non si sia almeno interrogato sull’esistenza di Dio; anche perché nessuno saprebbe adattarsi al “male di vivere”, viceversa urge in tutti un bisogno imperioso, insopprimibile, di salvezza, la si cerchi nel sogno come fa Gozzano o nella balia come preferisce Saba, nella “maglia rotta” cercata da Montale o nella “terra promessa” verso la quale s’incammina il “nomade” Ungaretti, nel nostos che muove i luogotenenti di Luzi o nella Res amissa di cui vuole tornare in possesso lo smemorato Caproni. La migliore poesia del secolo è quella che oscilla senza sosta, irrequieta, tra scenari apocalittici e attese palingenetiche. Ed è proprio nel suo non rassegnarsi al peggio, che essa si scosta dall’archetipo leopardiano.
9. IL CANONE NARRATIVO: TUTTO L’INVENTARIO DEL POSSIBILE
Ogni grande autore – s’intende – ha la forza di inventarsi un linguaggio originale e di costruirsi un mondo a misura del proprio singolare immaginario; non potrebbe nemmeno aspirare a costituirsi in modello, se non possedesse questa spiccata capacità. Ciò non toglie, peraltro, che anche in campo narrativo, al di là delle differenze perfino marcate tra uno scrittore e l’altro, il secolo lasci un’impronta vistosa nelle opere del paradigma. Anzitutto, scompare completamente la macchina romanzesca dell’intreccio, coi suoi colpi di scena e i segni del destino, gli snodi e le peripezie; o se viene ripristinata, come nel Fu Mattia Pascal, è unicamente per accreditare una visione accidentale delle vicende umane, tutto diventando egualmente possibile nel momento in cui il prodursi dei fatti non appare più regolato da una legge deterministica di causalità, ma soggetto alle bizzarrie del caso.
A partire da questa visione gelatinosa, non classificatoria, informe (o deforme) del reale, il romanzo del Novecento reintroduce nella rappresentazione di esso una certa dose di caos, a perturbare il cosmo ordinato delle forme tradizionali. Anzi, è proprio per soddisfare l’esigenza di un rispecchiamento integrale della vita, che vengono ripudiate, come contenitori troppo rigidi e angusti, le poetiche e le forme ereditate dal passato anche recente. Persino la nozione di “realismo” quale era venuta trionfando nel corso dell’Ottocento viene posta in stato d’accusa, come completamente inadeguata, per via della sua eccessiva soggezione al canone antico della verisimiglianza. Il calcolo delle probabilità non funziona più come discriminante per decidere della credibilità o meno del mondo inventato da un autore. Tutto diventa ammissibile, e quindi credibile, alla stessa stregua. Poco importa se un evento non ha la medesima probabilità di verificarsi di un altro: le categorie di _“ordinario” e “straordinario” vengono riassorbite nell’unica, indistinta, del “possibile”.
Del resto, nella letteratura del Novecento, come non si presta più fede ad alcuna norma o media statistica, così viene messa fortemente in discussione l’esistenza di una presunta “normalità” di natura e di comportamento. Lo Svevo della Coscienza di Zeno è convinto che gli organismi viventi, in un senso o nell’altro, siano tutti variamente malati, mentre il Pirandello di Uno, nessuno e centomila si toglie il gusto, addirittura, di scambiare le parti tra i “savii” e i “pazzi”[21]. La vita appare irriducibile alle vane costruzioni del pensiero e perfino della scienza, come alle gabbie dei luoghi comuni, delle convenzioni sociali e dell’ordine costituito. Nell’universo sconvolto della crisi moderna i casi diventano infiniti e i singoli individui non sono più visti come cosmi in miniatura. La totalità del reale viene percepita non più come il “prodotto” di una moltiplicazione all’ennesima potenza di unità sostanzialmente identiche tra loro, bensì come la “somma” incalcolabile di fenomeni disparati.
Peraltro, tutto il Novecento – si può dire – ha congiurato contro la forma romanzo, da quando Pirandello l’ha messa al servizio dell’argomentazione dialettica, deviandola verso il saggio, e lo Svevo della Coscienza di Zeno e del Vegliardo l’ha snodata in una successione di nuclei potenzialmente autonomi, a tema, agglutinabili ad libitum senza particolari scompensi. Gadda poi, precursore immediato degli scrittori dell’antiromanzo, quella forma si è visto sfuggire di mano a ogni pagina, continuamente distratto dalla sfaccettata complessità delle cose e dalla sua stessa esuberanza verbale. Nulla di strano, dunque, che anche Calvino – quello, in particolare, di Se una notte d’inverno un viaggiatore – approdi al romanzo impossibile.
La liquefazione della forma riflette una percezione del mondo come realtà complessa, enigmatica, sfuggente e priva di scopo, o di scopo scientificamente e razionalmente accertabile. Si consuma, cioè, nel romanzo contemporaneo la perdita di una visione unificante, in grado di attribuire un senso complessivo alla vita. L’inclinazione analitica si sviluppa a scapito della capacità di sintesi. Viene meno quella “prospettiva dall’alto” che era stata la spina dorsale del romanzo nell’età del suo massimo fulgore, l’io e il mondo finiscono per disgregarsi in un ammasso di frammenti, in un’anarchia di dettagli. La tradizionale compattezza della trama si dissolve in quello che il Calvino del Castello dei destini incrociati ha chiamato il «pulviscolo delle storie»[22], dove tutto si perde e si confonde. Cade perciò in disgrazia il modello ottocentesco del grande “ciclo” narrativo, a vantaggio, semmai, del cosiddetto “romanzo enciclopedico”, che supplisce alla mancanza di una visione esaustiva della realtà con la paziente, ostinata accumulazione dei dati, sorretta magari da qualche provvisoria ipotesi interpretativa, da un movimento pendolare – vedi Palomar di Calvino – di congetture e di smentite.
Ne deriva, se non altro, un’enorme dilatazione del raggio delle esperienze e degli oggetti acquisiti al repertorio letterario. Anzi, in linea di principio ogni referente viene riconosciuto degno di attenzione. Cadono insieme censure e gerarchie: non c’è più nulla di ciò che esiste che non possa entrare, a pieno titolo, nel dominio dell’arte. L’unico errore sarebbe proprio quello di escludere qualcosa: l’opera enciclopedica reclama e fagocita tutto. Il crollo delle ideologie incide con largo anticipo sulla materia della scrittura come sul linguaggio. Non ci sono più classi, né per gli oggetti né per le parole: s’instaura un regime di promiscuità, una sorta di società multietnica, in cui vige diritto di cittadinanza per tutto e per tutti, senza più distinzioni tra il reale e il fantastico, il tragico e il quotidiano, il sacro e il profano, il nobile e il plebeo, l’importante e l’effimero, il sublime e il grottesco, l’attraente e il repellente, l’onesto e l’immorale. Dentro il labirinto della crisi epocale è venuto meno l’ausilio di qualsiasi segnaletica direzionale: non resta che cercare lo sbocco alla cieca.
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[1] Come invece a buon diritto poteva fare, ad esempio, Luperini, ancora a ridosso del cambio di millennio, commentando il precedente aggiornamento dei programmi liceali, avvenuto nel 1987, quando denunciava che «le colonne d’Ercole dell’insegnamento della letteratura italiana» erano rimaste ferme, in buona sostanza, alla riforma Gentile, rispetto alla quale era stato aggiunto, tra gli autori canonici, il solo Pirandello. Cfr. ROMANO LUPERINI, Insegnare il Novecento [1998], in IDEM, Insegnare la letteratura oggi, Lecce, Manni, 20022, pp. 115-125: 115.
[2] ERIC J. HOBSBAWM, The age of extremes: the short twentieth century (1914-1991), London, Michael Joseph, 1994; traduzione italiana Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995.
[3] Alludo, ovviamente, al libro di GIULIO FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Torino, Einaudi, 1995.
[4] FAUSTO CURI, La poesia italiana nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 49.
[5] Cfr. ORESTE MACRÌ, La teoria letteraria delle generazioni, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Franco Cesati Editore, 1995.
[6] HAROLD BLOOM, The Western canon, New York-San Diego-London, Harcourt Brace & Company, 1994; traduzione italiana Il canone occidentale, Milano, Bompiani, 1996.
[7] Sia consentito rinviare, in proposito, a GIUSEPPE LANGELLA, La letteratura del Novecento e il problema del canone, nel vol. collettaneo Il Novecento a scuola, a cura di Giuseppe Langella, Pisa, ETS Edizioni, 2011, pp. 47-57: 51.
[8] Cfr. CESARE SEGRE, Il canone e la culturologia, negli Atti del convegno di studi su Lingua e letteratura italiana: istituzioni e insegnamento, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1998, pp. 19-27; riprodotto anche in «Allegoria», X (1998), 29-30, pp. 95-102.
[9] Cfr. in particolare GIANFRANCO CONTINI, Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Firenze, Sansoni, 1968, pp. 1049-1087; e IDEM, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Firenze-Milano, SansoniAccademia, 1974, pp. 424-442.
[10] L’allarme fu lanciato, da LUCA CURTI, con un articolo su Gadda, Carducci e noi. Considerazioni di fine millennio su canone e insegnamento della letteratura, in «Rassegna Lucchese», II (2000), 1, pp. 76109.
[11] Sulla nozione di “classico” mette conto segnalare: la voce Classico dell’Enciclopedia Einaudi, Torino 1978, III, pp. 192-202, dovuta a Fortini (poi in FRANCO FORTINI, Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987); ITALO CALVINO, Perché leggere i classici (1981), ora in IDEM, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, II, pp. 1816-1824; ALBERTO ASOR ROSA, Genus italicum. Sulla identità letteraria italiana nel corso del tempo, Torino, Einaudi, 1997, pp. 3-31; ANDREA BATTISTINI, Classici italiani: in ginocchio da te, in «L’Informazione Bibliografica», XXIV (1998), 4, pp. 581-593; GIUSEPPE PONTIGGIA, I contemporanei del futuro. Viaggio nei classici, Milano, Mondadori, 1998; e ILARIA MARANGONI, L’eredità dei classici nella cultura moderna e contemporanea, Roma, Edizioni Studium, 2005.
[12] Chi non si accontentasse di tanto poco, esigendo una trattazione almeno un po’ più distesa, può sempre consultare, mi auguro con qualche frutto, GIUSEPPE LANGELLA, Novecento letterario, nel vol. collettaneo Novecento, Novecenti. La cultura di un secolo, a cura di Evandro Agazzi, Brescia, Editrice La Scuola, 1999, pp. 85-116.
[13] LUIGI PIRANDELLO, Il fu Mattia Pascal, in IDEM, Tutti i romanzi, a cura di Giovanni Macchia, con la collaborazione di Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, I, pp. 485-486.
[14] Ivi, p. 467.
[15] ITALO CALVINO, Prefazione alla trilogia dei Nostri antenati, Torino, Einaudi, 1960; ora in IDEM, Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, I, 1991, pp. 1208-1219: 1216.
[16] In EUGENIO MONTALE, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1984, pp. 83-84.
[17] Ivi, p. 276.
[18] In ITALO CALVINO, Romanzi e racconti, cit., II, 1992, p. 543.
[19] In ITALO CALVINO, Saggi 1945-1985, cit., pp. 105-123.
[20] In EUGENIO MONTALE, Tutte le poesie, cit., p. 70.
[21] In LUIGI PIRANDELLO, Tutti i romanzi, cit., II, p. 820.
[22] In ITALO CALVINO, Romanzi e racconti, cit., II, 1992, p. 543.