Poesia come ontologia. Dai Vociani agli Ermetici
Edizioni Studium, Roma (1997)
Come definire quanto racchiuso in questo breve ma intenso libro se non l’avventuroso viaggio della poesia alle radici dell’essere?
Poesia, dunque, non come semplice gioco estetico e compiacimento artistico ma come percorso conoscitivo alla ricerca del fondamento, un’idea mistica di poesia che da Maritain si affaccia, tramite il Bo di “Letteratura come vita”, anche in Italia, che dai Vociani giunge sino agli Ermetici attraverso quelle che saranno le parole d’ordine della loro poetica: attesa, memoria, assenza.
Ma tratteggiamo insieme, seppure con brevi pennellate, i capitoli che compongono il testo.
Le frontiere della parola
La poesia Simbolista – che da Baudelaire arriva agli Ermetici – volge il suo sguardo verso orizzonti metafisici; essa va alla ricerca del mistero della vita, torna a contemplare le verità più alte. Tuttavia diversi sono i letterati dell’epoca, Bo, Cecchi, Papini, Boine – per limitarci solo ad alcuni nomi – che non si nascondono la grande difficoltà incontrata dal poeta nel momento in cui si accinge a tradurre in parole questa esperienza conoscitiva, questa estasi dell’anima. Persino Ungaretti parla di qualcosa di inespresso alla base di ogni comunicazione poetica di esperienze così profonde.
Eppure questo silenzio del poeta non viene visto come fatto negativo, come resa, ma – rifacendoci a Bo – come l’approdo a un’esperienza superiore. Vengono in mente, per limitarci a un esempio, i testi poetici di Ungaretti, dove lo stesso bianco della pagina acquista valore espressivo e le parole assumono forza straordinaria proprio grazie al loro isolamento.
Ma Bo si spinge oltre, arrivando a vedere nella scrittura solo un momento preparatorio all’ascolto della voce dell’essere; la poesia della Verità sorge, in questa prospettiva, in assenza di parole.
È doveroso, però, precisare che in campo ermetico si sollevano voci dissonanti da Bo: è il caso di Bigongiari, per il quale la scrittura diventa specchio della condizione umana, in fieri come in fieri è la nostra vita in rapporto all’eternità, o di Macrì, che rivaluta una parola non divina ma pregna di umanità, volta a raccontarci l’uomo, la sua natura, la sua corporeità.
Lirica pura e vertigine ermetica
Attorno all’Ermetimo numerosi sono, all’inizio, i fraintendimenti; al di fuori di esso l’unico che dimostra di comprenderlo è Contini. La sua “Risposta a un’inchiesta sull’ermetismo” (in “Primato”, I, 1940) è il primo serio sforzo interpretativo di quella poetica. Egli si rende conto che l’oscurità ermetica non è un problema di risultato estetico, di esecuzione, ma di visione, di intuizione conoscitiva: egli coglie – cioè – la vocazione ontologica degli Ermetici. Fatta eccezione per Contini, uno degli equivoci maggiori è quello che conduce a sovrapporre poesia pura e poesia ermetica. Da dove trae origine questo fraintendimento? I testi ermetici sono letti da molti letterati alla luce delle esperienze precedenti, solo come testi un po’ più intensi ed oscuri, perdendo di vista la portata ontologica della scrittura ermetica. Un esempio di questa visione sfocata e riduttiva è l’”Introduzione” ai “Lirici nuovi” di Anceschi: riconducendo a intenzioni comuni esperienze inconciliabili, egli non fa altro che sintetizzare i fraintendimenti più ricorrenti dei primi interpreti dell’Ermetismo, vedendo nell’oscurità solamente una questione stilistica.
Poesia e mistica: per una pedagogia dell’“assenza”
Nell’idea sviluppata dal giovane Bo di poesia come mezzo di conoscenza metafisica, legata all’esperienza religiosa, un ruolo centrale ha Rimbaud.
Bo trasferisce sul poeta la rinuncia ad esprimere con parole ciò che è ineffabile, il silenzio è segno dell’esperienza mistica e in esso entra in gioco l’annullamento del soggetto che si abbandona al Dio che lo visita. Ciò implica una disposizione all’ascolto, all’attesa, come caratteristica fondamentale del poeta, aperto alla possibilità di ricevere una rivelazione ontologica.
Si spiega, così, il distacco da Rimbaud – forse anche sulla scia della lettura di Maritain – ancora troppo legato a una ricerca attiva dell’illuminazione poetica. In “Letteratura come vita” (1938) assistiamo al definitivo ripudio di Rimbaud e all’instaurarsi del principio poetico dell’attesa. Questo cambio di prospettiva conduce Bo a riavvicinarsi a Mallarmé, rileggendolo alla luce di san Giovanni della Croce, sulla cui scia egli imbocca la via della nescienza: la poesia ermetica non ha più bisogno di gareggiare con la filosofia e, ancora una volta, il confronto da farsi è quello con il metodo dei mistici (come dimostrato dallo scritto “Dell’attesa come voce inattiva”).
Bo, infatti, fissa le linee portanti della pedagogia ermetica dell’autospoliazione.
L’atto dell’interrogarsi non rappresenta più la nascita della poesia, ma dispone l’anima all’ascolto e la spoliazione dello spirito sfocia in spoliazione linguistica, poiché viene percepita l’inadeguatezza ontologica di ogni parola davanti all’ineffabile.
A metà degli anni Quaranta, però, Bo si rende conto del vicolo cieco imboccato dalla teoria dell’assenza, della diversità tra il silenzio di Mallarmé, segno di un’angoscia senza sbocchi, assordante come una condanna senza appello, e il silenzio, il non sapere, dei mistici, atto di fede e di attesa. In Mallarmè Bo rivede, più sottile ma non meno pericoloso, lo stesso peccato d’orgoglio già visto in Rimbaud e si accosta, ennesima evoluzione del suo pensiero, al romanzo “Le Grand Meaulnes” di Alain-Fournier. Soprattutto nel luogo senza nome da cui si sente attratto Meaulnes che, la sera delle nozze, parte dietro il richiamo irresistibile di Frantz, Bo vede la dimora della poesia. È il fondamento dell’idea mistica di poesia.
L’anima e il corpo
Se la linea indicata da Bo è quella dello spiritualismo ed è, per gli Ermetici, la strada maestra, le fa da contraltare, da coscienza critica, la linea, tutta terrestre, indicata da Macrì. Per stabilire la posizione di quest’ultimo all’interno dell’Ermetismo, dobbiamo considerare lo scritto del 1939 “Intorno ad alcune ragioni non formali della poesia”, che ne riassume il pensiero. Mentre Bo segue la via, mistica, della negazione di appetiti ed umori, Macrì attribuisce al corpo un ruolo imprescindibile, indicando in particolare in Boine un passaggio obbligato cui rinviare l’ultima generazione di poeti per orientarne la scrittura verso le coordinate terrestri. Macrì colloca infatti il poeta di Frantumi nella linea che vede il corpo come depositario delle verità eterne che riguardano l’uomo.
Al di là di queste differenze, in realtà, il compito che Macrì affida alla poesia contemporanea non sembra dissimile da quello indicato da Bo in “Letteratura come vita”, vale a dire il concentrarsi della ricerca poetica nel raggio delle verità ontologiche. Tuttavia l’anima macriana non ha nulla in comune con l’esperienza spirituale del rapimento mistico attesa da Bo; anche il legame strettissimo con il qui e ora si contrappone all’ansia di eterno che ha caratterizzato la spiritualità cristiana di Bo. Quella di Macrì è un’ontologia immanentistica.
Simbolo, memoria, salvezza
Questa terrestrità non rappresenta, per Macrì, un impedimento a sollevarsi in quella dimensione di pienezza cui la poesia moderna aspira ed è proprio della poesia, non della filosofia, il compito di spingersi fin sull’orlo dell’abisso della conoscenza.
Per comprendere perché un filosofo nutra così poca fiducia nella ragione, dobbiamo guardare all’argomento della sua tesi: “Studi sulla fantasia vichiana. Il problema estetico in G.B. Vico”: sulla scia di Vico, che ridava alla poesia un ruolo centrale nella decifrazione del mondo, anche Macrì le affida il compito di trovare – tramite la fantasia – i nomi in grado di condensare sensazioni, emozioni, esperienze, capaci di tramutare le cose in simboli. È la poetica della parola, che non è strumento di conoscenza, ma genera fantasmi.
Macrì, dunque, cerca di assegnare alla creazione poetica una completa autosufficienza, di toglierla da quell’inferiorità cui la condannava la ragione spiegata. Nella poesia contemporanea egli scorge i segni del ritorno a un linguaggio poetico di pregnanza ontologica, in grado di stabilire un contatto con i regni inferiori della natura umana.
Avviso ai lettori…
Racchiudere in poche righe la densità e ricchezza di significati di questa monografia non è stata cosa facile. Spero di aver almeno raggiunto un obiettivo: suscitare nel lettore la curiosità di sfogliarla, per lasciarsi assorbire da una interpretazione critica capace di restituire il volto più complesso, ma anche più autentico, dell’Ermetismo.
G.V.