N. Rocchi, Giornale di Brescia, 5-07-2015, p. 40
A. Anelli, Il Cittadino di Lodi, 2-07- 2015, p. 32
RICONOSCIMENTO
Settembre 2015.
Secondo posto per la "poesia edita" al XXXIII Premio Letterario "Alpi Apuane" con il testo "Reliquiario della grande tribolazione".
Motivazione: "Con parole di compassione umana e di pietà cristiana, il poeta Giuseppe Langella incide il suo reliquiario a ricordo della Prima Guerra Mondiale. Dalla meditazione scaturiscono testi poetici che, uniti a tavole d'artista emozionanti e vive, richiamano alla memoria le stazioni della Via Crucis, segni di tappe di un cammino inarrestabile verso la morte, dettato dalla logica spietata e violenta delle armi. Il verso di Langella, disadorno ed incisivo, intriso di pietas umana e religiosa, sa affrontare un universo di atroci sofferenze, senza sfiorare la minima retorica".
Settembre 2015.
Secondo posto per la "poesia edita" al XXXIII Premio Letterario "Alpi Apuane" con il testo "Reliquiario della grande tribolazione".
Motivazione: "Con parole di compassione umana e di pietà cristiana, il poeta Giuseppe Langella incide il suo reliquiario a ricordo della Prima Guerra Mondiale. Dalla meditazione scaturiscono testi poetici che, uniti a tavole d'artista emozionanti e vive, richiamano alla memoria le stazioni della Via Crucis, segni di tappe di un cammino inarrestabile verso la morte, dettato dalla logica spietata e violenta delle armi. Il verso di Langella, disadorno ed incisivo, intriso di pietas umana e religiosa, sa affrontare un universo di atroci sofferenze, senza sfiorare la minima retorica".
Poesia in guerra
Giuseppe Langella, Reliquiario
della Grande Tribolazione, Interlinea,
Novara 2015, pp. 54, euro 12.
La guerra del ’15-’18 fu una carneficina, priva di ideologie, sia pure folli: a guardar bene, un non-senso. Portò solo morte e dolore, con un lunghissimo dopo di mutilati, di tisici e malati mentali che nei nosocomi si ritrovarono, vaneggiando, dall’altra parte della vita. Fu la guerra di trincea, del marcio che accomuna sangui, linguaggi, vestimenta. Come ben la definisce Langella, una grande tribolazione. Le poesie che compongono questa via crucis (così recita il sottotitolo) nascono dall’incontro dell’autore con lo scultore camuno Edoardo Nonelli, escursionista e crodaiolo, che da anni cerca sull’Adamello i testi criptati della Guerra Bianca, reliquie che l’autore nomina nell’incipit una per una; una litania di brandelli pietosamente sfiorati, tale è la loro indifesa fragilità. «Il vento ne rimescola le voci» – scrive – ma lui vuole che parlino: e ci riesce tramite un timbro sacrale e lontano, quasi una ripercossa dell’aria di cent’anni fa. Lamiere, scatolette arrugginite, chiodi, scampoli di reticolati, frantumi di suole, mancano solo i pidocchi – ma quelli sono marciti con i morti nella mota del disgelo – recitano di ciò che è pazienza, rischio, temerità, delirio. Langella, convinto che nella sciagura risplenda comunque la pietà di Dio, teme (si direbbe) la cifra spinosa dell’asprezza e l’ostile mineralità della storia: sgranando l’orrido campionario in dodici stazioni, immagina scarpe deposte ai piedi di una croce, e il povero militare riposarsi «al sicuro / sulla croce d’abete nel giorno / del passaggio oltre il muro del pianto»: i caduti sarebbero i martiri di una eventuale modificazione del futuro, gli intermediari fra il Male e il Bene supremo. Per ciò il bisogno della scrittura poetica, che è quello di dire molto in poche righe, lo induce a cogliere, in rapidi lampi, il trasalimento delle loro anime che si alza sopra il reale, sulla gruma delle sofferenze, sul fiele dei dèmoni e delle paure. È salito in quota e ha visto sanguinare le pietre, ha immaginato «il cibo mangiato in fretta, / seduti, pronti per partire », ha respirato l’angustia dei cunicoli: tuttavia la capacità di evocazione trasforma l’amaro strisciante in un finale canto di resurrezione. Chi è scampato e non è più talpa, larva o ghiacciolo, scende a valle: la tragedia sembra lontana, si nota anzi una certa euforia nel milite che ritorna, il rifiuto di ammettere che c’è stato qualcos’altro nel suo mondo. La compresenza del passato diventa in Langella un «così sia». Una seconda mente, una seconda natura della sua educazione gli fa percepire una luce certa nell’oscurità dell’enigma- guerra: e il canto si fa largo, all’orizzonte si affacciano la donna, il vino, «i mestieri della pace». Viene alla mente la Sapienza che si rivela a Giobbe piagato, sul cumulo di concio. A conclusione della breve nota, occorre sottolineare che nella teca del prezioso «reliquiario » ci sono tavole di artisti che hanno combattuto su entrambi i fronti, oltre a due opere inedite di Edoardo Nonelli e Jean-Pierre Velly.
C. Ferrari, Studi Cattolici, 658, dicembre 2015, pp. 915-916
Giuseppe Langella, Reliquiario
della Grande Tribolazione, Interlinea,
Novara 2015, pp. 54, euro 12.
La guerra del ’15-’18 fu una carneficina, priva di ideologie, sia pure folli: a guardar bene, un non-senso. Portò solo morte e dolore, con un lunghissimo dopo di mutilati, di tisici e malati mentali che nei nosocomi si ritrovarono, vaneggiando, dall’altra parte della vita. Fu la guerra di trincea, del marcio che accomuna sangui, linguaggi, vestimenta. Come ben la definisce Langella, una grande tribolazione. Le poesie che compongono questa via crucis (così recita il sottotitolo) nascono dall’incontro dell’autore con lo scultore camuno Edoardo Nonelli, escursionista e crodaiolo, che da anni cerca sull’Adamello i testi criptati della Guerra Bianca, reliquie che l’autore nomina nell’incipit una per una; una litania di brandelli pietosamente sfiorati, tale è la loro indifesa fragilità. «Il vento ne rimescola le voci» – scrive – ma lui vuole che parlino: e ci riesce tramite un timbro sacrale e lontano, quasi una ripercossa dell’aria di cent’anni fa. Lamiere, scatolette arrugginite, chiodi, scampoli di reticolati, frantumi di suole, mancano solo i pidocchi – ma quelli sono marciti con i morti nella mota del disgelo – recitano di ciò che è pazienza, rischio, temerità, delirio. Langella, convinto che nella sciagura risplenda comunque la pietà di Dio, teme (si direbbe) la cifra spinosa dell’asprezza e l’ostile mineralità della storia: sgranando l’orrido campionario in dodici stazioni, immagina scarpe deposte ai piedi di una croce, e il povero militare riposarsi «al sicuro / sulla croce d’abete nel giorno / del passaggio oltre il muro del pianto»: i caduti sarebbero i martiri di una eventuale modificazione del futuro, gli intermediari fra il Male e il Bene supremo. Per ciò il bisogno della scrittura poetica, che è quello di dire molto in poche righe, lo induce a cogliere, in rapidi lampi, il trasalimento delle loro anime che si alza sopra il reale, sulla gruma delle sofferenze, sul fiele dei dèmoni e delle paure. È salito in quota e ha visto sanguinare le pietre, ha immaginato «il cibo mangiato in fretta, / seduti, pronti per partire », ha respirato l’angustia dei cunicoli: tuttavia la capacità di evocazione trasforma l’amaro strisciante in un finale canto di resurrezione. Chi è scampato e non è più talpa, larva o ghiacciolo, scende a valle: la tragedia sembra lontana, si nota anzi una certa euforia nel milite che ritorna, il rifiuto di ammettere che c’è stato qualcos’altro nel suo mondo. La compresenza del passato diventa in Langella un «così sia». Una seconda mente, una seconda natura della sua educazione gli fa percepire una luce certa nell’oscurità dell’enigma- guerra: e il canto si fa largo, all’orizzonte si affacciano la donna, il vino, «i mestieri della pace». Viene alla mente la Sapienza che si rivela a Giobbe piagato, sul cumulo di concio. A conclusione della breve nota, occorre sottolineare che nella teca del prezioso «reliquiario » ci sono tavole di artisti che hanno combattuto su entrambi i fronti, oltre a due opere inedite di Edoardo Nonelli e Jean-Pierre Velly.
C. Ferrari, Studi Cattolici, 658, dicembre 2015, pp. 915-916
Presentazione F. Grisoni, Brescia 2-11-2015
V. Lamarque, La Lettura (supplemento al Corriere della Sera), 27-12-2015, p. 21
P. Maffeo, Roma, 21-07- 2015, p. 42
A. Vannicelli, La Croce, 2-07-2015, p. 6
D. M. Pegorari, Incroci, XXXII, 2015, pp. 131- 132
GIUSEPPE LANGELLA
RELIQUIARIO DELLA GRANDE TRIBOLAZIONE. VIA CRUCIS IN TEMPO DI GUERRA
È la denuncia feroce contro la barbarie della guerra che Giuseppe Langella, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica di Milano, affida a questo libro. Lungo l’arco di dodici stazioni poetiche (Reliquie, Elegia sopra una scatoletta arrugginita, Vino rosso, Lamiere, Brandello di stoffa, Reticolati, Legno dei dolori, Chiodi, Scarpe al sole, Pietra diaccia, Cunicoli e Discesa), nuova via crucis per l’uomo soldato, l’A. narra l’amara esperienza della guerra, di tante vite umane perdute, dal primo assalto fino alla fine del conflitto, con la discesa a valle dei sopravvissuti. L’idea del Reliquiario nasce nell’A. dall’incontro con la Croce, suggestiva opera d’arte plastica dello scultore camuno Edoardo Nonelli, struttura composta con reperti bellici recuperati in alta quota, sui luoghi dello scontro bellico della «grande guerra». Il racconto lirico della via crucis di Langella, proprio come la narrazione evangelica, è permeato di santità, e non poteva essere altrimenti. È una sacralità che investe e fa assurgere ad agnello sacrificale chi, contro il proprio volere, è stato chiamato ad assolvere al dovere di soldato, con un’ultima cena che si sostanzia nel rancio con una scatoletta di carne e un gavettino di vino rosso prima di uscire dalla fossa per un assalto senza ritorno. Un terreno dove
la morte la fa da padrona, dove «morire in fulgore — ci ricorda Langella — sarebbe clemenza, neanche il tempo di dire: “Muoio”». Sono sante le vite perdute («Il vento ne rimescola le voci. I nomi sono incisi sulle croci», p. 15); santi i luoghi dove hanno alloggiato; permeati di santità schegge e brandelli appartenuti a eroi di cui non si conoscerà mai il nome; santa quella natura dove il conflitto s’è consumato, parte di quel creato, tanto caro a Papa Francesco, stanco di essere devastato dagli ordigni di ieri come dalle malefatte odierne degli eredi del progenitore Adamo. «Adamo dove sei?». Il Reliquiario di Langella ci riporta all’appello del Vicario di Cristo, lanciato dal balcone del Palazzo apostolico di fronte allo
scempio che l’uomo fa del suo simile e dell’ambiente che lo circonda. Il messaggio dell’A., forte e significativo, è l’invito a riconsiderare la sacralità della vita umana e della terra, capace di rileggere e reinterpretare il «legno dei dolori», scrigno prezioso di reliquie da aprire per nuovi appelli a un’umanità distratta dall’effimero.
R. Bussi, La civiltà cattolica 3968, 24-10- 2015, p. 203
RELIQUIARIO DELLA GRANDE TRIBOLAZIONE. VIA CRUCIS IN TEMPO DI GUERRA
È la denuncia feroce contro la barbarie della guerra che Giuseppe Langella, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica di Milano, affida a questo libro. Lungo l’arco di dodici stazioni poetiche (Reliquie, Elegia sopra una scatoletta arrugginita, Vino rosso, Lamiere, Brandello di stoffa, Reticolati, Legno dei dolori, Chiodi, Scarpe al sole, Pietra diaccia, Cunicoli e Discesa), nuova via crucis per l’uomo soldato, l’A. narra l’amara esperienza della guerra, di tante vite umane perdute, dal primo assalto fino alla fine del conflitto, con la discesa a valle dei sopravvissuti. L’idea del Reliquiario nasce nell’A. dall’incontro con la Croce, suggestiva opera d’arte plastica dello scultore camuno Edoardo Nonelli, struttura composta con reperti bellici recuperati in alta quota, sui luoghi dello scontro bellico della «grande guerra». Il racconto lirico della via crucis di Langella, proprio come la narrazione evangelica, è permeato di santità, e non poteva essere altrimenti. È una sacralità che investe e fa assurgere ad agnello sacrificale chi, contro il proprio volere, è stato chiamato ad assolvere al dovere di soldato, con un’ultima cena che si sostanzia nel rancio con una scatoletta di carne e un gavettino di vino rosso prima di uscire dalla fossa per un assalto senza ritorno. Un terreno dove
la morte la fa da padrona, dove «morire in fulgore — ci ricorda Langella — sarebbe clemenza, neanche il tempo di dire: “Muoio”». Sono sante le vite perdute («Il vento ne rimescola le voci. I nomi sono incisi sulle croci», p. 15); santi i luoghi dove hanno alloggiato; permeati di santità schegge e brandelli appartenuti a eroi di cui non si conoscerà mai il nome; santa quella natura dove il conflitto s’è consumato, parte di quel creato, tanto caro a Papa Francesco, stanco di essere devastato dagli ordigni di ieri come dalle malefatte odierne degli eredi del progenitore Adamo. «Adamo dove sei?». Il Reliquiario di Langella ci riporta all’appello del Vicario di Cristo, lanciato dal balcone del Palazzo apostolico di fronte allo
scempio che l’uomo fa del suo simile e dell’ambiente che lo circonda. Il messaggio dell’A., forte e significativo, è l’invito a riconsiderare la sacralità della vita umana e della terra, capace di rileggere e reinterpretare il «legno dei dolori», scrigno prezioso di reliquie da aprire per nuovi appelli a un’umanità distratta dall’effimero.
R. Bussi, La civiltà cattolica 3968, 24-10- 2015, p. 203
Milano, 6 giugno 2015
Regalatemi ieri, in occasione della presentazione del mio libro L’adolescenza e la notte (Passigli, 2015), da poeti generosamente convenuti (pur in un po-meriggio milanese afosissimo), alcune pubblicazioni, rispettivamente di Laura Cantelmo, Giuseppe Langella e Silvio Aman. [...] Di Langella, nativo di Loreto ma di adozione milanese, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea alla Cattolica, che oltre alla sua nota produzione saggistica (Manzoni, Svevo, ermetismo, ecc.) ha alle spalle un sostanzioso opus poetico, leggo Reliquario della grande tribolazione (Interlinea, 2015, nota di Franca Grisoni). Si tratta di un’opera intensa e commovente che ha come sfondo drammatici momenti della prima guerra mondiale, le cui vicende storiche e umane hanno da sempre interessato l’autore, sia nella sua veste di studioso sia in quella di poeta. Il libro, fra l’altro, è reso ulteriormente toccante da illustrazioni ricavate, per lo più, da opere di artisti che combatterono, sull’uno o sull’altro fronte, nella Grande Guerra, fatta eccezione per la struggente e nuda Croce di Edoardo Nonelli (a p. 28), al quale il libro è espressamente dedicato, insieme agli “amici di Ponte di Legno”, e la straziante Main crucifiée di Jean-Pierre Velly (p. 30). Un libro questo di Langella, che mi ha profondamente coinvolto sul piano emotivo, oltre che su quello puramente letterario, con la sua versificazione elegante, sapientemente ritmica, e dolorosamente avvincente; penso p.e. ai versi di Cunicoli («Giorni e giorni a scavare cunicoli, / ad aprir gallerie nella roccia; / star sepolti in oscuri follicoli, / dove il seme marcisce e non sboccia. // Come insetti nell’ambra sospesi, / tante larve nel ghiaccio per mesi»); poesia alla quale è affiancata, proprio alla pagina accanto, la sconvolgente riproduzione di un’acquaforte di Henry De Groux, L’hecatombe. Un libro atroce e necessario, questo di Langella, con una sua sinuosa musicalità meditativa e raccolta.
L. Fontanella, Gradiva 48-1-1, pp. 173-174
Regalatemi ieri, in occasione della presentazione del mio libro L’adolescenza e la notte (Passigli, 2015), da poeti generosamente convenuti (pur in un po-meriggio milanese afosissimo), alcune pubblicazioni, rispettivamente di Laura Cantelmo, Giuseppe Langella e Silvio Aman. [...] Di Langella, nativo di Loreto ma di adozione milanese, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea alla Cattolica, che oltre alla sua nota produzione saggistica (Manzoni, Svevo, ermetismo, ecc.) ha alle spalle un sostanzioso opus poetico, leggo Reliquario della grande tribolazione (Interlinea, 2015, nota di Franca Grisoni). Si tratta di un’opera intensa e commovente che ha come sfondo drammatici momenti della prima guerra mondiale, le cui vicende storiche e umane hanno da sempre interessato l’autore, sia nella sua veste di studioso sia in quella di poeta. Il libro, fra l’altro, è reso ulteriormente toccante da illustrazioni ricavate, per lo più, da opere di artisti che combatterono, sull’uno o sull’altro fronte, nella Grande Guerra, fatta eccezione per la struggente e nuda Croce di Edoardo Nonelli (a p. 28), al quale il libro è espressamente dedicato, insieme agli “amici di Ponte di Legno”, e la straziante Main crucifiée di Jean-Pierre Velly (p. 30). Un libro questo di Langella, che mi ha profondamente coinvolto sul piano emotivo, oltre che su quello puramente letterario, con la sua versificazione elegante, sapientemente ritmica, e dolorosamente avvincente; penso p.e. ai versi di Cunicoli («Giorni e giorni a scavare cunicoli, / ad aprir gallerie nella roccia; / star sepolti in oscuri follicoli, / dove il seme marcisce e non sboccia. // Come insetti nell’ambra sospesi, / tante larve nel ghiaccio per mesi»); poesia alla quale è affiancata, proprio alla pagina accanto, la sconvolgente riproduzione di un’acquaforte di Henry De Groux, L’hecatombe. Un libro atroce e necessario, questo di Langella, con una sua sinuosa musicalità meditativa e raccolta.
L. Fontanella, Gradiva 48-1-1, pp. 173-174
Altri contributi:
http://giuseppegrattacaso.it/?p=998hai
http://www.libertariam.blogspot.it/p/il-rosso-e-il-nero.html
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DARE VOCE AL DOLORE
Quando capita di trovarsi di fronte a libri che hanno le dimensioni di un Kindle, si ha il pregiudizio di credere istintivamente che abbiano poco da dire in virtù del loro formato. Ma il lettore attento, sensibile, spesso curioso di scrutare nei piccoli scrigni, sa che il più delle volte non è così.
Li apri e ti accorgi che si può raccontare una vita intera, e vera, anche in uno scampolo di versi o nel perimetro fisso e ridotto concesso da un quotidiano. Si è, in altre parole, di fronte a plaquettes, piccole nell’aspetto, ma giganti nel messaggio. Libri delicati e intensi, che silenziosi aspettano il lettore. Opere discrete, eppure dalla forza tremenda. Ed è proprio nella loro minutezza che sta la potenza della loro pienezza. Ne sono esempio due preziose raccolte edite recentemente dalla novarese Interlinea. Due sillogi, riferite a tematiche diverse ed epoche lontane, ma così annodate tra loro nell’intento di dare voce al dolore, al racconto del dolore, al vivere quotidiano del dolore. Non a caso sono ospitate entrambe nella «Collana Passio», nata nel 1993 e dedicata alla ricerca interiore dell’uomo contemporaneo, alla passione intesa come sofferenza, al male di vivere, ma anche all’amore profano e spirituale. La collezione conta ad oggi cinquantasei titoli e contempla vari generi e motivi: dalle testimonianze su avvenimenti storici ai diari di autori importanti come Clemente Rebora e Paul Claudel. Ma come si racconta la passio? Dove si può collocare il dolore quando oltrepassa la carne, l’essere, la logica, la vita?
È tutta sostanza la sofferenza rievocata da Giuseppe Langella nel Reliquiario della grande tribolazione. Via crucis in tempo di guerra (2015). Langella, poeta, tra i fondatori del Realismo terminale e professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, fa riaffiorare il dolore, intimo e universale, dei soldati della Prima guerra mondiale, costretti a sopravvivere nell’angustia delle trincee, fra reticolati e cunicoli, in uno scenario di precarietà fisica ed esistenziale: «agnelli al mattatoio» (p. 23), «insetti nell’ambra sospesi, / tante larve nel ghiaccio per mesi» (p. 37). Ecco allora che il dolore si concretizza e si può raccontare, ad esempio, attraverso gli oggetti, elencati dal poeta quasi fossero, oltre che un reliquiario, un abbecedario: «lamiere ritorte», «ferri incrostati», «scheletri di baracche», «ghirbe, taniche, sacche», «scatolette arrugginite», «scarpe logore», «brandelli di stoffa», «chiodi», ovvero esili tracce di una via crucis di angosce, di disagi, di pazienza, di «tristezza nera», nella quale poteva essere «clemenza / morire in un fulgore, / neanche il tempo di dire “muoio”» (p. 23).
È la liturgia dell’accadimento quotidiano durante gli anni duri e dolorosi della Grande Guerra, narrati attraverso la fisicità dell’oggetto e il verso delicato e ritmato del poeta. Dodici poesie, dodici stazioni e la via crucis dell’umanità: «quando la guerra scroscia», scrive Langella, «l’acerba dama porge il calice da bere» (ivi).
Ad arricchire il volume ci sono le tavole d’artista: tutte le illustrazioni riprodotte, infatti, ad eccezione della Croce di Edoardo Nonelli e della Main crucifiée di Jean-Pierre Velly, sono opere di artisti che hanno combattuto, sull’uno o sull’altro fronte, negli anni della guerra e risalgono al periodo stesso del conflitto. Il colpo d’occhio tra le opere e le poesie esprime al contempo concretezza e commozione (la Croce dello scultore camuno Nonelli, ad esempio, è stata realizzata con reperti bellici recuperati lungo le trincee dell’Adamello).
L’essenzialità del verso e quella degli oggetti/soggetti si sovrappongono e si confondono: «Sterminate matasse di filo / come enormi corone di spine, / a difesa di un fragile asilo / un reticolo avvolge le chine» (p. 27). Dalle cime dell’Adamello scende a valle, ancora dopo cent’anni, il dolore e il sacrificio dei fratelli: «Fra questi muri a secco / contesi allo stambecco / vissero e morirono a centinaia / finché durò la naia. / Il vento ne rimescola le voci. / I nomi sono incisi sulle croci» (p. 15). Ed è un dolore che ancora oggi si può toccare con mano: «O legno centenario, / arso dal sole, scavato dai venti, / tutto costole e solchi, schegge e fori; / midollo che si spacca dai dolori, / fosti fasciame che scalda e ripara, / buono per la baracca e per la bara» (p. 29).
Nella raccolta sono evidenti i rimandi agli oggetti della Crocefissione, agli strumenti della Passione, contrassegni di una grammatica del patire, per dirla con Natoli, che diventano testimonianza di un dolore sia personale che cosmico: «il linguaggio religioso avverte: ciò che viene presentato è cosa preziosa, cosa santa», scrive Franca Grisoni nel suo Introibo (p. 7). Utensili e parole. Silenzio e grido. Gli oggetti rievocati da Langella ora hanno voce e il dolore si riattualizza: «la memoria impressa nei luoghi che furono teatro del conflitto mondiale», avverte la poetessa sirmionese in apertura, «ha bisogno di essere continuamente interpretata e trasmessa da artisti mossi dalla passione e dal bisogno di ricordare» (p. 5).
È tutta vita, nonostante il fiato della morte sia sul collo, anche il volume di Mirella Poggialini Il tempo che rimane. Diario di una malattia, curato da Alessandro Zaccuri (2016). È la cronaca della malattia di un’intellettuale, critica d’arte e televisiva di «Avvenire» e nella trincea dei letti d’ospedale fin dalla nascita. Nel 2004, le viene diagnosticato un linfoma che irrompe e rompe la sua quotidianità: «la malattia è un imprevisto che non era stato messo in conto e al quale occorre reagire con soave tenacia» (p. 9), scrive Zaccuri nella Prefazione. La “signora Mirella” (come la chiamava il suo pubblico televisivo) decide così di raccontare la sua esperienza di malata e dal 24 giugno al 2 settembre dello stesso anno, a cadenza bisettimanale, pubblica su «Avvenire», sotto lo pseudonimo di Francesca, il diario della sua malattia: è un «diario per interposta persona che appassiona e commuove» (ivi) e che aiuta a conoscere e a capire qualcosa di più di un male della nostra società. Ancora una volta, il patire personale può fornire la chiave di accesso al patire di tanti altri singoli. Dare voce al dolore significa, in questo emozionante journal intime, cantare la vita: «chi ha un male “irrimediabile” è un lottatore» e il «silenzio non sa di sconfitta» (p. 39). «Sfoga il dolore tuo con la parola: un dolore che non parla si rivolge contro il cuore troppo oppresso e lo spezza», dice Malcolm al nobile scozzese Ross del Macbeth shakespeariano. Il dolore lo si deve chiamare per nome, guardarlo in faccia, senza filtri o infingimenti. E
così fa la Poggialini: «Ho saputo. Finalmente, lo stordimento e la sorpresa combattono con un sottile sgomento e una sensazione di sollievo. Il medico me l’ha detto poco fa, mascherando con la parola neoplasia la brutalità del termine “cancro”. Adesso so. E sapere fa male e bene insieme, anzi, a poco a poco, sento che fa più bene che male […] il sapere contro cosa devo lottare mi dà un’energia che non sapevo di avere» (pp. 15-16).
Il dolore, si sa, se raccontato e condiviso, alleggerisce il fardello e il cammino. La scelta, addirittura, di metterlo in vetrina su un quotidiano nazionale, anche se dietro un’identità nascosta, impone ai lettori una riflessione profonda sul senso valoriale della malattia, che se da un lato toglie, dall’altro aggiunge: «Mi fido dei medici che mi parlano di cure positive: non di guarigione, ma di un combattimento ad armi pari che si può protrarre a lungo. A lungo quanto? […] Quanto durerà il tempo misterioso che a ognuno è concesso […] quanto vorrà Dio affidarmi […] non posso spiegare a ognuno il mio stato d’animo, probabilmente soggettivo e influenzato da una speranza che si può ritenere assurda. Ma io spero…» (p. 24). E ancora: «Attesa di un domani insicuro, di un peggioramento annunciato. Che tuttavia non altera la mia capacità di godere […] Ogni ora è dono» (p. 45).
La speranza è l’altra faccia della medaglia della disperazione, sostiene Flannery O’Connor nel suo Diario di preghiera, recentemente tradotto in italiano da Bompiani. La seconda delle tre virtù teologali la si può comprendere, quindi, solo se posta in contrasto alla disperazione: «sperare contro ogni speranza» (Poggialini, p. 28), specchiandosi nello «sforzo inutile dei tralci» della Canestra del Caravaggio, che «vorrebbero alzarsi. Come nella vita, nella malattia» (p. 29), per «resistere», per «vivere giorno per giorno», per «assaporare le piccole soddisfazioni, le minime occasioni di sorriso» (p. 31). La malattia – potrà sembrare un’assurdità ma non lo è affatto se si ha esperienza di certi dolori – può essere un’occasione di rinascita, una sterzata di prospettiva sulla realtà, «una diversa visione e perciò un modo del tutto diverso di considerare il mondo e di comprendere l’accadere» (Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore), da parte di chi non riesce «a entrare nella mentalità della condannata» (Poggialini, p. 23): «accettare il male […] significa diventare un di più, in un mutamento che è un allargarsi di orizzonti […] Sembra un paradosso, eppure a volte il malato sente che la malattia gli ha dato qualcosa di buono. La capacità di cogliere il senso della vita in un’armonia nuova, venata di nostalgia sottile, di rivolgersi al mondo con occhi nuovi, di andare oltre, con un coraggio che non sapeva di avere» (p. 56). E allora dove si colloca il dolore? Forse in un piccolo libro che non fa clamore. E si può vestire la sofferenza con le parole, come suggeriva Shakespeare. Il dolore come dimensione che si attraversa. Il dolore si indossa, si tocca, si tramanda nella quotidianità, sia essa degli oggetti o della routine professionale. È così che si fa autentico e abitato. Si può tornare al saggio di Salvatore Natoli, in conclusione, per comprendere meglio quest’ultima riflessione: «Il dolore, qualunque sia la sua origine ed in qualunque modo sia vissuto, rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione. Il mondo si vede in un modo in cui mai prima s’era visto. Il dolore è veicolo di conoscenza non per astrazione, ma per immedesimazione: oltre certi limiti dell’uomo controllabili esso si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza».
È il respiro della memoria, il fiato dell’eternità, non quello della morte o del dolore, a soffiare in questi due piccoli quanto necessari “inni di vita”. E le pagine sono preghiere sussurrate che esaltano la sacralità della Natura e della vita di fronte a una «scatoletta arrugginita» (Langella) o a una «vetrina» (Poggialini).
Bibliografia
Giuseppe Langella, Reliquiario della grande tribolazione. Via crucis in tempo di guerra. Con tavole d’artista, Interlinea, Novara 2015, pp. 48.
Mirella Poggialini, Il tempo che rimane. Diario di una malattia, a cura di Alessandro Zaccuri, Interlinea, Novara 2016, pp. 80.
Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 392.
Flannery O’Connor, Diario di preghiera, Bompiani, Milano 2016.
S. Segatori, La Ricerca, 02-08-2016
Si rimanda anche alla relativa pagina web: www.laricerca.loescher.it/letteratura/1361-dare-voce-al-dolore.html
Quando capita di trovarsi di fronte a libri che hanno le dimensioni di un Kindle, si ha il pregiudizio di credere istintivamente che abbiano poco da dire in virtù del loro formato. Ma il lettore attento, sensibile, spesso curioso di scrutare nei piccoli scrigni, sa che il più delle volte non è così.
Li apri e ti accorgi che si può raccontare una vita intera, e vera, anche in uno scampolo di versi o nel perimetro fisso e ridotto concesso da un quotidiano. Si è, in altre parole, di fronte a plaquettes, piccole nell’aspetto, ma giganti nel messaggio. Libri delicati e intensi, che silenziosi aspettano il lettore. Opere discrete, eppure dalla forza tremenda. Ed è proprio nella loro minutezza che sta la potenza della loro pienezza. Ne sono esempio due preziose raccolte edite recentemente dalla novarese Interlinea. Due sillogi, riferite a tematiche diverse ed epoche lontane, ma così annodate tra loro nell’intento di dare voce al dolore, al racconto del dolore, al vivere quotidiano del dolore. Non a caso sono ospitate entrambe nella «Collana Passio», nata nel 1993 e dedicata alla ricerca interiore dell’uomo contemporaneo, alla passione intesa come sofferenza, al male di vivere, ma anche all’amore profano e spirituale. La collezione conta ad oggi cinquantasei titoli e contempla vari generi e motivi: dalle testimonianze su avvenimenti storici ai diari di autori importanti come Clemente Rebora e Paul Claudel. Ma come si racconta la passio? Dove si può collocare il dolore quando oltrepassa la carne, l’essere, la logica, la vita?
È tutta sostanza la sofferenza rievocata da Giuseppe Langella nel Reliquiario della grande tribolazione. Via crucis in tempo di guerra (2015). Langella, poeta, tra i fondatori del Realismo terminale e professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, fa riaffiorare il dolore, intimo e universale, dei soldati della Prima guerra mondiale, costretti a sopravvivere nell’angustia delle trincee, fra reticolati e cunicoli, in uno scenario di precarietà fisica ed esistenziale: «agnelli al mattatoio» (p. 23), «insetti nell’ambra sospesi, / tante larve nel ghiaccio per mesi» (p. 37). Ecco allora che il dolore si concretizza e si può raccontare, ad esempio, attraverso gli oggetti, elencati dal poeta quasi fossero, oltre che un reliquiario, un abbecedario: «lamiere ritorte», «ferri incrostati», «scheletri di baracche», «ghirbe, taniche, sacche», «scatolette arrugginite», «scarpe logore», «brandelli di stoffa», «chiodi», ovvero esili tracce di una via crucis di angosce, di disagi, di pazienza, di «tristezza nera», nella quale poteva essere «clemenza / morire in un fulgore, / neanche il tempo di dire “muoio”» (p. 23).
È la liturgia dell’accadimento quotidiano durante gli anni duri e dolorosi della Grande Guerra, narrati attraverso la fisicità dell’oggetto e il verso delicato e ritmato del poeta. Dodici poesie, dodici stazioni e la via crucis dell’umanità: «quando la guerra scroscia», scrive Langella, «l’acerba dama porge il calice da bere» (ivi).
Ad arricchire il volume ci sono le tavole d’artista: tutte le illustrazioni riprodotte, infatti, ad eccezione della Croce di Edoardo Nonelli e della Main crucifiée di Jean-Pierre Velly, sono opere di artisti che hanno combattuto, sull’uno o sull’altro fronte, negli anni della guerra e risalgono al periodo stesso del conflitto. Il colpo d’occhio tra le opere e le poesie esprime al contempo concretezza e commozione (la Croce dello scultore camuno Nonelli, ad esempio, è stata realizzata con reperti bellici recuperati lungo le trincee dell’Adamello).
L’essenzialità del verso e quella degli oggetti/soggetti si sovrappongono e si confondono: «Sterminate matasse di filo / come enormi corone di spine, / a difesa di un fragile asilo / un reticolo avvolge le chine» (p. 27). Dalle cime dell’Adamello scende a valle, ancora dopo cent’anni, il dolore e il sacrificio dei fratelli: «Fra questi muri a secco / contesi allo stambecco / vissero e morirono a centinaia / finché durò la naia. / Il vento ne rimescola le voci. / I nomi sono incisi sulle croci» (p. 15). Ed è un dolore che ancora oggi si può toccare con mano: «O legno centenario, / arso dal sole, scavato dai venti, / tutto costole e solchi, schegge e fori; / midollo che si spacca dai dolori, / fosti fasciame che scalda e ripara, / buono per la baracca e per la bara» (p. 29).
Nella raccolta sono evidenti i rimandi agli oggetti della Crocefissione, agli strumenti della Passione, contrassegni di una grammatica del patire, per dirla con Natoli, che diventano testimonianza di un dolore sia personale che cosmico: «il linguaggio religioso avverte: ciò che viene presentato è cosa preziosa, cosa santa», scrive Franca Grisoni nel suo Introibo (p. 7). Utensili e parole. Silenzio e grido. Gli oggetti rievocati da Langella ora hanno voce e il dolore si riattualizza: «la memoria impressa nei luoghi che furono teatro del conflitto mondiale», avverte la poetessa sirmionese in apertura, «ha bisogno di essere continuamente interpretata e trasmessa da artisti mossi dalla passione e dal bisogno di ricordare» (p. 5).
È tutta vita, nonostante il fiato della morte sia sul collo, anche il volume di Mirella Poggialini Il tempo che rimane. Diario di una malattia, curato da Alessandro Zaccuri (2016). È la cronaca della malattia di un’intellettuale, critica d’arte e televisiva di «Avvenire» e nella trincea dei letti d’ospedale fin dalla nascita. Nel 2004, le viene diagnosticato un linfoma che irrompe e rompe la sua quotidianità: «la malattia è un imprevisto che non era stato messo in conto e al quale occorre reagire con soave tenacia» (p. 9), scrive Zaccuri nella Prefazione. La “signora Mirella” (come la chiamava il suo pubblico televisivo) decide così di raccontare la sua esperienza di malata e dal 24 giugno al 2 settembre dello stesso anno, a cadenza bisettimanale, pubblica su «Avvenire», sotto lo pseudonimo di Francesca, il diario della sua malattia: è un «diario per interposta persona che appassiona e commuove» (ivi) e che aiuta a conoscere e a capire qualcosa di più di un male della nostra società. Ancora una volta, il patire personale può fornire la chiave di accesso al patire di tanti altri singoli. Dare voce al dolore significa, in questo emozionante journal intime, cantare la vita: «chi ha un male “irrimediabile” è un lottatore» e il «silenzio non sa di sconfitta» (p. 39). «Sfoga il dolore tuo con la parola: un dolore che non parla si rivolge contro il cuore troppo oppresso e lo spezza», dice Malcolm al nobile scozzese Ross del Macbeth shakespeariano. Il dolore lo si deve chiamare per nome, guardarlo in faccia, senza filtri o infingimenti. E
così fa la Poggialini: «Ho saputo. Finalmente, lo stordimento e la sorpresa combattono con un sottile sgomento e una sensazione di sollievo. Il medico me l’ha detto poco fa, mascherando con la parola neoplasia la brutalità del termine “cancro”. Adesso so. E sapere fa male e bene insieme, anzi, a poco a poco, sento che fa più bene che male […] il sapere contro cosa devo lottare mi dà un’energia che non sapevo di avere» (pp. 15-16).
Il dolore, si sa, se raccontato e condiviso, alleggerisce il fardello e il cammino. La scelta, addirittura, di metterlo in vetrina su un quotidiano nazionale, anche se dietro un’identità nascosta, impone ai lettori una riflessione profonda sul senso valoriale della malattia, che se da un lato toglie, dall’altro aggiunge: «Mi fido dei medici che mi parlano di cure positive: non di guarigione, ma di un combattimento ad armi pari che si può protrarre a lungo. A lungo quanto? […] Quanto durerà il tempo misterioso che a ognuno è concesso […] quanto vorrà Dio affidarmi […] non posso spiegare a ognuno il mio stato d’animo, probabilmente soggettivo e influenzato da una speranza che si può ritenere assurda. Ma io spero…» (p. 24). E ancora: «Attesa di un domani insicuro, di un peggioramento annunciato. Che tuttavia non altera la mia capacità di godere […] Ogni ora è dono» (p. 45).
La speranza è l’altra faccia della medaglia della disperazione, sostiene Flannery O’Connor nel suo Diario di preghiera, recentemente tradotto in italiano da Bompiani. La seconda delle tre virtù teologali la si può comprendere, quindi, solo se posta in contrasto alla disperazione: «sperare contro ogni speranza» (Poggialini, p. 28), specchiandosi nello «sforzo inutile dei tralci» della Canestra del Caravaggio, che «vorrebbero alzarsi. Come nella vita, nella malattia» (p. 29), per «resistere», per «vivere giorno per giorno», per «assaporare le piccole soddisfazioni, le minime occasioni di sorriso» (p. 31). La malattia – potrà sembrare un’assurdità ma non lo è affatto se si ha esperienza di certi dolori – può essere un’occasione di rinascita, una sterzata di prospettiva sulla realtà, «una diversa visione e perciò un modo del tutto diverso di considerare il mondo e di comprendere l’accadere» (Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore), da parte di chi non riesce «a entrare nella mentalità della condannata» (Poggialini, p. 23): «accettare il male […] significa diventare un di più, in un mutamento che è un allargarsi di orizzonti […] Sembra un paradosso, eppure a volte il malato sente che la malattia gli ha dato qualcosa di buono. La capacità di cogliere il senso della vita in un’armonia nuova, venata di nostalgia sottile, di rivolgersi al mondo con occhi nuovi, di andare oltre, con un coraggio che non sapeva di avere» (p. 56). E allora dove si colloca il dolore? Forse in un piccolo libro che non fa clamore. E si può vestire la sofferenza con le parole, come suggeriva Shakespeare. Il dolore come dimensione che si attraversa. Il dolore si indossa, si tocca, si tramanda nella quotidianità, sia essa degli oggetti o della routine professionale. È così che si fa autentico e abitato. Si può tornare al saggio di Salvatore Natoli, in conclusione, per comprendere meglio quest’ultima riflessione: «Il dolore, qualunque sia la sua origine ed in qualunque modo sia vissuto, rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione. Il mondo si vede in un modo in cui mai prima s’era visto. Il dolore è veicolo di conoscenza non per astrazione, ma per immedesimazione: oltre certi limiti dell’uomo controllabili esso si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza».
È il respiro della memoria, il fiato dell’eternità, non quello della morte o del dolore, a soffiare in questi due piccoli quanto necessari “inni di vita”. E le pagine sono preghiere sussurrate che esaltano la sacralità della Natura e della vita di fronte a una «scatoletta arrugginita» (Langella) o a una «vetrina» (Poggialini).
Bibliografia
Giuseppe Langella, Reliquiario della grande tribolazione. Via crucis in tempo di guerra. Con tavole d’artista, Interlinea, Novara 2015, pp. 48.
Mirella Poggialini, Il tempo che rimane. Diario di una malattia, a cura di Alessandro Zaccuri, Interlinea, Novara 2016, pp. 80.
Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 392.
Flannery O’Connor, Diario di preghiera, Bompiani, Milano 2016.
S. Segatori, La Ricerca, 02-08-2016
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