Il secolo delle riviste. Lo statuto letterario dal "Baretti" a "Primato"
Vita e Pensiero, Milano (1982)
Del fascismo e del suo tentativo di controllare ogni aspetto della società, ivi compresa la cultura, si è già detto sicuramente molto. La monografia di Giuseppe Langella ha, però, anzitutto il merito di delineare, in modo ordinato e sistematico, il complesso e spesso contraddittorio rapporto tra politica e cultura nel corso del Ventennio. L’attenzione viene posta, in particolare, sulle posizioni assunte dalle riviste del periodo, tracciando un ventaglio di posizioni che va dall’adesione convinta al regime alla vera e propria fronda. La ragione di questa scelta di campo s’indovina facilmente: il Novecento, infatti, almeno fino agli anni Sessanta, è stato “il secolo delle riviste”, costellato da centinaia di pubblicazioni. Le riviste furono il luogo e il canale privilegiato di una cultura basata sull’attualità, militante.
Il fascismo, come il nazismo e lo stalinismo, cercò di creare una cultura al servizio del regime, così da poter manipolare l’opinione pubblica e ottenerne il consenso. La sorveglianza e la censura attuate dal regime non impedirono, tuttavia, né la produzione di stampa clandestina – che, però, proprio per la modalità di diffusione e per la sua natura prettamente politica, vide il proprio raggio d’azione assai limitato – né la pubblicazione di voci discordanti da esso, in modo più o meno velato, su riviste liberamente circolanti nel paese, anche fra quelle più vicine. La dittatura, dunque, non riuscì mai ad asservire totalmente la classe intellettuale, ma innegabilmente ne condizionò l'azione, riducendone al minimo la libertà di manovra.
Semplificando, durante il Ventennio i letterati si trovarono davanti a un bivio: o sostenere a viso aperto il regime, fino a diventare ingranaggi della sua macchina di propaganda, oppure, rifiutandosi di appoggiarlo, arroccarsi in un’ideale “cittadella letteraria”, in una “torre d’avorio” consacrata al culto dell'arte per l'arte, nel segno dell'evasione. Tuttavia, se continuava, e addirittura veniva esasperata, la condizione subalterna e di isolamento della “casta letteraria”, già presente in epoca liberale, per alcuni intellettuali la letteratura divenne l’unico modo per continuare, in un campo meno sorvegliato, lo scontro con la dittatura, dunque strumento di battaglia e d’impegno civile: da una parte, quindi, il prezzoliniano Per una società degli Apoti, banditore di una posizione arrendevole, da spettatori ormai rassegnati al fatto compiuto; dall’altra il Contromanifesto crociano, a rivendicare la piena autonomia della cultura e il boicottaggio della politica del regime.
Nella pratica questa “disobbedienza civile” dovette accettare un inevitabile ripiegamento, per permettere la sopravvivenza di una cultura non asservita, ma si tradusse, almeno all'inizio, in prodotti anche di notevole coraggio, come “Il Baretti” (Torino, 1924-1928) di Piero Gobetti, specchio della secessione aventiniana, strumento d’intensificazione e di allargamento dell’offensiva contro il fascismo: in nome di un'idea di letteratura lontana anni luce dello statuto rondesco, riportata a “vessillo di civiltà”.
Diverse posizioni, dunque, esiti disparati, legati anche alle vicende delle città in cui queste riviste furono stampate: se l’asse Roma-Milano portò il marchio dell’ufficialità, delle testate fedeli al regime (pensiamo a “Gerarchia” o a “Civiltà Fascista”), Firenze rappresentò il principale centro “eretico” di elaborazione culturale, dove almeno sino ai primi anni Trenta gli intellettuali poterono muoversi con una certa libertà. È proprio in questa città che, nel 1926, vide la luce “Solaria”, muovendo da una pregiudiziale “obiezione di coscienza” che col tempo si sarebbe trasformata in una decisa fronda verso il regime, usando la letteratura come allusiva polemica politica. Questo percorso avrebbe suscitato l’ostilità dei competenti organi di vigilanza dello Stato fascista, portando al sequestro del secondo numero del 1934; le pubblicazioni, con un ulteriore cambio di rotta, proseguirono sino al 1936, dopodiché dalla diaspora solariana nacquero “Letteratura” di Alessandro Bonsanti e “La Riforma Letteraria” di Alberto Carocci – già direttore di “Solaria” – e di Giacomo Noventa.
Se la prima cercò di rilanciare la “Solaria” prima maniera, a difesa dell'autonomia letteraria, la seconda scelse la strada impervia di una letteratura impegnata ma non asservita, di alto profilo ideologico e civile, additando proprio in “Letteratura” il culmine dell’isolamento e della decadenza. Tuttavia, anche “La Riforma Letteraria” chiuse con un bilancio negativo, illudendosi di opporsi al fascismo solo tramite la forza della polemica filosofica.
Isolamento letterario e confronto teorico furono, d’altro canto, le due strade scelte da Firenze nel momento in cui si accorse di non poter dar vita ad alcun rapporto costruttivo con il fascismo, come avrebbe testimoniato anche da “Campo di Marte” (1938-1939). Il caso fiorentino è emblematico della più generale crisi della cultura “aventiniana” davanti all’invadenza della politica, tanto più dopo l’occupazione dell’Etiopia. Il successo riportato dal regime in questa occasione condusse il fronte antifascista ad abbandonare la via della non compromissione, per adottare la strategia del “cavallo di Troia”, ovvero dell'insinuazione nei canali istituzionali di tesi “eretiche” e di vere e proprie critiche al regime: una fronda dall’interno, che usava – ad esempio – le stesse parole d’ordine ufficiali per far emergere le contraddizioni del sistema; un lavoro di logoramento ai fianchi, la cui portata fu proporzionale al numero di collaboratori antifascisti che riuscirono a penetrare nelle varie testate. È il caso della rivista gufina di Padova “Il Bo” (1935-1944), su cui riuscì a pubblicare numerosi articoli Eugenio Curiel, o della milanese “Corrente” (1938-1940) del giovane Ernesto Treccani, che seppe diventare il punto di convergenza dalla cultura più avanzata, assumendo un significato di portata nazionale.
“Primato” (1940-1943) di Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti fu invece l'ultimo tentativo fascista di imperialismo culturale, riscoperta dell’importanza del contributo intellettuale allo sforzo totale della nazione in armi.
Langella si occupa anche della cultura cattolica nel corso del Ventennio. Con la firma dei Patti Lateranensi (febbraio 1929), che chiudevano l'annosa questione romana, la cultura cattolica cercò di uscire dalle catacombe in cui era stata relegata negli ultimi decenni e di conquistare un'egemonia. La posta in gioco era alta, anche perché si trattava, fra l'altro, di orientare la formazione dei giovani; in questo senso incisiva fu la milanese “Vita e Pensiero” di padre Gemelli, monsignor Olgiati e Ludovico Necchi. Un’altra voce nata dopo il Concordato e destinata a ritagliarsi uno spazio importante nel campo della cultura letteraria d’ispirazione cattolica fu “Il Frontespizio”, foglio pensato come strumento militante, divulgativo, recensorio e censorio insieme, con un programma di “revisione in senso cattolico della tradizione culturale italiana”. Le due riviste furono impegnate in prima linea nella discussione che scosse la pubblicistica cattolica per tutta la prima metà degli anni Trenta, quella inerente il rapporto tra arte e apostolato, tra rappresentazione del male e visione edificante.
Infine Langella ripercorre altre due polemiche memorabili del Ventennio, ovvero quella fra “Strapaese” e “Stracittà”, e quella tra “Contenutisti” e Calligrafi”.
“Strapaese” e “Stracittà” incarnano i due volti non solo del fascismo ma anche dell’Italia: l’una legata alla provincia, specialmente rurale, e ai valori della nostra tradizione; l’altra alla città, all’industria e alla modernizzazione. A ingaggiare questa aspra lotta culturale furono in particolare due riviste di tendenza, che pretesero
di rappresentare l’anima autentica del fascismo: la stracittadina “Novecento” (1926-1929) di Massimo Bontempelli e la strapaesana “Il Selvaggio” (1924-1943) di Mino Maccari. “Novecento” concepiva gli scrittori come creatori, in serie, di beni di consumo, artigiani della penna più che artisti. A questa proposta “Il Selvaggio” cercò di opporsi con tutte le sue forze, in nome della tradizione.
La seconda polemica vide schierati, da un lato, i filo-rondiani, dall’altro chi aspirava a una nuova letteratura che, pur senza tralasciare lo stile, non ne facesse la norma assoluta, restituendo valore al contenuto dell’opera.
In questo dibattito s’inserì autorevolmente “Solaria”, la cui storia può essere vista proprio come il tentativo di uscire dal vicolo cieco in cui era finita la prosa d’arte. S’imboccava una strada che voltava le spalle alla “Ronda” per cercare, attraverso, l’introspezione e la proiezione autobiografica, gli strumenti necessari a ridare vita a un’arte come documento dell’uomo.
Fondamentale, in questo senso, fu la riflessione critica attorno ad autori come Federigo Tozzi e, soprattutto, Italo Svevo, visti come passaggi obbligati per una rinascita del romanzo. In questa polemica varie voci autorevoli intervennero, tra cui quella di Alberto Moravia che, dalle colonne dell’”Italia Letteraria”, liquidò il calligrafismo.
Nel 1930, infine, nonostante le proteste e i tentativi di difesa degli affezionati alla prosa d’arte, si arrivò per quest’ultima alla resa dei conti. Pur riconoscendone i meriti, il critico piemontese Giacomo Debenedetti avvertiva l’esigenza di superare il frammento rondesco tramite una mediazione tra mestiere ed esperienza di vita.
Questo ripensamento fu affrettato, peraltro, dalla riflessione allora sviluppatasi in ambienti fascisti riguardo al legame tra letteratura e politica, letteratura e società, insomma alla funzione della letteratura nello Stato fascista (incisivo a questo proposito, l’intervento di Giorgio Granata, uno dei direttori del “Saggiatore”).
Molto altro vi sarebbe ancora da aggiungere, ma toglieremmo al lettore il piacere della scoperta di un testo cosi ricco e articolato. Una conclusione, però, è d’obbligo: nessuna ambizione totalitaria del Duce fu in grado di dissolvere del tutto uomini, istituzioni e cultura preesistenti all’Italia fascista. Certo, il regime ne tentò l’assalto, ma fu incapace di penetrare sino in fondo nella cultura italiana e crollò senza lasciare alcun libro capace di resistere al tempo.
G.V.
Il fascismo, come il nazismo e lo stalinismo, cercò di creare una cultura al servizio del regime, così da poter manipolare l’opinione pubblica e ottenerne il consenso. La sorveglianza e la censura attuate dal regime non impedirono, tuttavia, né la produzione di stampa clandestina – che, però, proprio per la modalità di diffusione e per la sua natura prettamente politica, vide il proprio raggio d’azione assai limitato – né la pubblicazione di voci discordanti da esso, in modo più o meno velato, su riviste liberamente circolanti nel paese, anche fra quelle più vicine. La dittatura, dunque, non riuscì mai ad asservire totalmente la classe intellettuale, ma innegabilmente ne condizionò l'azione, riducendone al minimo la libertà di manovra.
Semplificando, durante il Ventennio i letterati si trovarono davanti a un bivio: o sostenere a viso aperto il regime, fino a diventare ingranaggi della sua macchina di propaganda, oppure, rifiutandosi di appoggiarlo, arroccarsi in un’ideale “cittadella letteraria”, in una “torre d’avorio” consacrata al culto dell'arte per l'arte, nel segno dell'evasione. Tuttavia, se continuava, e addirittura veniva esasperata, la condizione subalterna e di isolamento della “casta letteraria”, già presente in epoca liberale, per alcuni intellettuali la letteratura divenne l’unico modo per continuare, in un campo meno sorvegliato, lo scontro con la dittatura, dunque strumento di battaglia e d’impegno civile: da una parte, quindi, il prezzoliniano Per una società degli Apoti, banditore di una posizione arrendevole, da spettatori ormai rassegnati al fatto compiuto; dall’altra il Contromanifesto crociano, a rivendicare la piena autonomia della cultura e il boicottaggio della politica del regime.
Nella pratica questa “disobbedienza civile” dovette accettare un inevitabile ripiegamento, per permettere la sopravvivenza di una cultura non asservita, ma si tradusse, almeno all'inizio, in prodotti anche di notevole coraggio, come “Il Baretti” (Torino, 1924-1928) di Piero Gobetti, specchio della secessione aventiniana, strumento d’intensificazione e di allargamento dell’offensiva contro il fascismo: in nome di un'idea di letteratura lontana anni luce dello statuto rondesco, riportata a “vessillo di civiltà”.
Diverse posizioni, dunque, esiti disparati, legati anche alle vicende delle città in cui queste riviste furono stampate: se l’asse Roma-Milano portò il marchio dell’ufficialità, delle testate fedeli al regime (pensiamo a “Gerarchia” o a “Civiltà Fascista”), Firenze rappresentò il principale centro “eretico” di elaborazione culturale, dove almeno sino ai primi anni Trenta gli intellettuali poterono muoversi con una certa libertà. È proprio in questa città che, nel 1926, vide la luce “Solaria”, muovendo da una pregiudiziale “obiezione di coscienza” che col tempo si sarebbe trasformata in una decisa fronda verso il regime, usando la letteratura come allusiva polemica politica. Questo percorso avrebbe suscitato l’ostilità dei competenti organi di vigilanza dello Stato fascista, portando al sequestro del secondo numero del 1934; le pubblicazioni, con un ulteriore cambio di rotta, proseguirono sino al 1936, dopodiché dalla diaspora solariana nacquero “Letteratura” di Alessandro Bonsanti e “La Riforma Letteraria” di Alberto Carocci – già direttore di “Solaria” – e di Giacomo Noventa.
Se la prima cercò di rilanciare la “Solaria” prima maniera, a difesa dell'autonomia letteraria, la seconda scelse la strada impervia di una letteratura impegnata ma non asservita, di alto profilo ideologico e civile, additando proprio in “Letteratura” il culmine dell’isolamento e della decadenza. Tuttavia, anche “La Riforma Letteraria” chiuse con un bilancio negativo, illudendosi di opporsi al fascismo solo tramite la forza della polemica filosofica.
Isolamento letterario e confronto teorico furono, d’altro canto, le due strade scelte da Firenze nel momento in cui si accorse di non poter dar vita ad alcun rapporto costruttivo con il fascismo, come avrebbe testimoniato anche da “Campo di Marte” (1938-1939). Il caso fiorentino è emblematico della più generale crisi della cultura “aventiniana” davanti all’invadenza della politica, tanto più dopo l’occupazione dell’Etiopia. Il successo riportato dal regime in questa occasione condusse il fronte antifascista ad abbandonare la via della non compromissione, per adottare la strategia del “cavallo di Troia”, ovvero dell'insinuazione nei canali istituzionali di tesi “eretiche” e di vere e proprie critiche al regime: una fronda dall’interno, che usava – ad esempio – le stesse parole d’ordine ufficiali per far emergere le contraddizioni del sistema; un lavoro di logoramento ai fianchi, la cui portata fu proporzionale al numero di collaboratori antifascisti che riuscirono a penetrare nelle varie testate. È il caso della rivista gufina di Padova “Il Bo” (1935-1944), su cui riuscì a pubblicare numerosi articoli Eugenio Curiel, o della milanese “Corrente” (1938-1940) del giovane Ernesto Treccani, che seppe diventare il punto di convergenza dalla cultura più avanzata, assumendo un significato di portata nazionale.
“Primato” (1940-1943) di Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti fu invece l'ultimo tentativo fascista di imperialismo culturale, riscoperta dell’importanza del contributo intellettuale allo sforzo totale della nazione in armi.
Langella si occupa anche della cultura cattolica nel corso del Ventennio. Con la firma dei Patti Lateranensi (febbraio 1929), che chiudevano l'annosa questione romana, la cultura cattolica cercò di uscire dalle catacombe in cui era stata relegata negli ultimi decenni e di conquistare un'egemonia. La posta in gioco era alta, anche perché si trattava, fra l'altro, di orientare la formazione dei giovani; in questo senso incisiva fu la milanese “Vita e Pensiero” di padre Gemelli, monsignor Olgiati e Ludovico Necchi. Un’altra voce nata dopo il Concordato e destinata a ritagliarsi uno spazio importante nel campo della cultura letteraria d’ispirazione cattolica fu “Il Frontespizio”, foglio pensato come strumento militante, divulgativo, recensorio e censorio insieme, con un programma di “revisione in senso cattolico della tradizione culturale italiana”. Le due riviste furono impegnate in prima linea nella discussione che scosse la pubblicistica cattolica per tutta la prima metà degli anni Trenta, quella inerente il rapporto tra arte e apostolato, tra rappresentazione del male e visione edificante.
Infine Langella ripercorre altre due polemiche memorabili del Ventennio, ovvero quella fra “Strapaese” e “Stracittà”, e quella tra “Contenutisti” e Calligrafi”.
“Strapaese” e “Stracittà” incarnano i due volti non solo del fascismo ma anche dell’Italia: l’una legata alla provincia, specialmente rurale, e ai valori della nostra tradizione; l’altra alla città, all’industria e alla modernizzazione. A ingaggiare questa aspra lotta culturale furono in particolare due riviste di tendenza, che pretesero
di rappresentare l’anima autentica del fascismo: la stracittadina “Novecento” (1926-1929) di Massimo Bontempelli e la strapaesana “Il Selvaggio” (1924-1943) di Mino Maccari. “Novecento” concepiva gli scrittori come creatori, in serie, di beni di consumo, artigiani della penna più che artisti. A questa proposta “Il Selvaggio” cercò di opporsi con tutte le sue forze, in nome della tradizione.
La seconda polemica vide schierati, da un lato, i filo-rondiani, dall’altro chi aspirava a una nuova letteratura che, pur senza tralasciare lo stile, non ne facesse la norma assoluta, restituendo valore al contenuto dell’opera.
In questo dibattito s’inserì autorevolmente “Solaria”, la cui storia può essere vista proprio come il tentativo di uscire dal vicolo cieco in cui era finita la prosa d’arte. S’imboccava una strada che voltava le spalle alla “Ronda” per cercare, attraverso, l’introspezione e la proiezione autobiografica, gli strumenti necessari a ridare vita a un’arte come documento dell’uomo.
Fondamentale, in questo senso, fu la riflessione critica attorno ad autori come Federigo Tozzi e, soprattutto, Italo Svevo, visti come passaggi obbligati per una rinascita del romanzo. In questa polemica varie voci autorevoli intervennero, tra cui quella di Alberto Moravia che, dalle colonne dell’”Italia Letteraria”, liquidò il calligrafismo.
Nel 1930, infine, nonostante le proteste e i tentativi di difesa degli affezionati alla prosa d’arte, si arrivò per quest’ultima alla resa dei conti. Pur riconoscendone i meriti, il critico piemontese Giacomo Debenedetti avvertiva l’esigenza di superare il frammento rondesco tramite una mediazione tra mestiere ed esperienza di vita.
Questo ripensamento fu affrettato, peraltro, dalla riflessione allora sviluppatasi in ambienti fascisti riguardo al legame tra letteratura e politica, letteratura e società, insomma alla funzione della letteratura nello Stato fascista (incisivo a questo proposito, l’intervento di Giorgio Granata, uno dei direttori del “Saggiatore”).
Molto altro vi sarebbe ancora da aggiungere, ma toglieremmo al lettore il piacere della scoperta di un testo cosi ricco e articolato. Una conclusione, però, è d’obbligo: nessuna ambizione totalitaria del Duce fu in grado di dissolvere del tutto uomini, istituzioni e cultura preesistenti all’Italia fascista. Certo, il regime ne tentò l’assalto, ma fu incapace di penetrare sino in fondo nella cultura italiana e crollò senza lasciare alcun libro capace di resistere al tempo.
G.V.