L'utopia nella storia. Uomini e riviste del Novecento
Edizioni Studium, Roma (2003)
Introduzione
La profondità dei temi trattati in questi studi, che meritano di essere letti nella loro interezza, ha suggerito, qui più che altrove, di tratteggiare dei brevi quadri, volti solo a orientare il lettore in una materia così complessa. Seguiremo, come già fatto nei precedenti lavori, la divisione in capitoli voluta dall’autore.
Tra storia e utopia non ci sono mai stati buoni rapporti; la storia sembra fatta per distruggere i sogni, ma l’utopia rinasce sempre. Nel suo obbedire all’utopia, la storia si redime, trasformandosi da mysterium iniquitatis in historia salutis. Anche se gli “uomini” e le “riviste” trattati in questo libro si collocano tutti in ambito cattolico, Langella tiene a precisare che l’utopia appartiene a tutti, non è appannaggio di nessuno, come confermano, fra l’altro, i continui riferimenti al «Politecnico», al «Ponte» e alla «Nuova Europa».
La “seconda nascita” di Papini
Nel primo dopoguerra si sente la necessità di tornare a Manzoni; tra i promotori di questo ritorno allo scrittore lombardo, passato anch’esso – ricordiamolo – attraverso l’esperienza della conversione, vi è Giovanni Papini, protagonista di un sofferto percorso verso Dio. Egli abbandona i suoi pregiudizi su Manzoni proprio in concomitanza con la svolta spirituale: nell’anno in cui dà alle stampe la Storia di Cristo – lavoro che testimonia il suo tragitto da Gesù alla Chiesa – pubblica anche Le più belle pagine di Alessandro Manzoni.
Per Papini l’autore lombardo conta anzitutto come modello morale, per questo predilige le Osservazioni sulla morale cattolica, grazie alle quali individua nell’impegno apologetico la forma migliore di presenza pubblica del convertito nella società. In Manzoni, allora, Papini cerca indicazioni che lo aiutino a definire il suo ruolo di cattolico scrittore. Sempre sulla scia dei testi manzoniani, Papini arriva anche a comprendere che tra uomo vecchio e uomo nuovo corre un rapporto dialettico, poiché la Grazia prende ciò che di buono c’è nella natura e lo incanala in un piano di salvezza.
La stesura della Seconda nascita, iniziata nell’aprile 1923, risente di questa visione maturata negli anni precedenti. In questo testo Papini rievoca la sua vita passata, alla ricerca delle tappe salienti del suo avvicinamento a Dio, esibendo certi tratti di continuità tra il suo passato di ateo e il suo presente di uomo di fede. Un ruolo centrale è ancora attribuito a Manzoni, che qui diventa anche modello di pudore e umiltà, conducendo Papini a interrompere il suo racconto, reprimendo la spinta all’esibizione autobiografica. L’opera, di fatto, uscirà postuma.
Borgese e il “sopramondo” dell’arte
Anche Giuseppe Antonio Borgese riconosce a Manzoni un ruolo di spicco nel proporre agli scrittori la via dell’impegno. In particolare, nel momento in cui sta diventando di moda una letteratura a sfondo religioso sulla scia delle tante conversioni di quel periodo, Borgese invita a prestare attenzione alla delicatezza dell’argomento e addita Manzoni come esempio, autore di un romanzo in cui l’impronta cristiana è tanto radicata quanto poco appariscente. L’esibizione del proprio credo, infatti, infastidisce Borgese, perenne cercatore di Dio, giunto a una fede non confessionale e vissuta nel proprio intimo.
Tanto sono ferme, perciò, le opere di Papini nella proclamazione del dogma, spinte dalla propaganda fides, quanto appaiono invece travagliate e segnate dall’itinerarium ad fidem quelle di Borgese. Mentre Papini pone le sue qualità di scrittore al servizio della diffusione del Vangelo, Borgese rivendica all’arte in generale, e alla letteratura in particolare, un ruolo più alto, una propria santità, ritenendole esse stesse una sorta di religione.
Il problema religioso torna in tutta la produzione di Borgese, a partire dal Rubè (1921), in cui numerose – come del resto in tutti i suoi testi – sono le citazioni e i riferimenti manzoniani, dalla Pentecoste ai Promessi Sposi, dall’Adelchi alla Morale Cattolica.
Se Rubè è la storia di una conversione mancata, che rimette tuttavia nelle mani di Dio ogni decisione in merito alla salvezza o alla dannazione di una persona, I vivi e i morti (1923) è il romanzo di una conversione inseguita per tutta la vita, mentre il dramma Lazzaro (1926) ruota intorno al motivo della fede che, pur senza vedere il miracolo, vince ogni incredulità.
Carlo Bo e il “paese dell’anima”
In quello che va considerato il primo manifesto dell’ermetismo fiorentino, Riconoscenza alla poesia (1934), Carlo Bo attribuisce alla poesia uno statuto conoscitivo, concependola come accanita ricerca di un assoluto; poesia, dunque, come tortuosa via verso la fede. A sostegno di questa idea Bo guarda anzitutto ai simbolisti, in primo luogo a Baudelaire, ma anche a Goethe e ad Alain-Fournier.
Nel viaggio alle Madri del Faust goethiano Bo vede riflessa la sfida più alta che la letteratura abbia mai lanciato a sé stessa: svelare il senso ultimo dell’esistenza. Ma, al tempo stesso, egli non si nasconde la difficoltà insormontabile incontrata dal poeta quando vuole tradurre in parole umane i misteri su cui ha fissato lo sguardo, tanto che l’approdo finale diventa l’afasia: non, però, un silenzio di disfatta, bensì l’attestazione del compimento di un viaggio. C’è, infatti, differenza tra il silenzio di chi attende, ancora, l’attimo dell’illuminazione e quello di chi, già, ha visto le Madri.
Ma è all’Alain-Fournier del Grand Meaulnes che Bo, mistico allo stato selvaggio, continuamente in ricerca, guarda in questi anni come guida spirituale, al motivo da questi sviluppato del desiderio del paese dell’anima. Il tema della partenza e del viaggio dei poeti alla ricerca di questo paese, infatti, è già adombrato nel protagonista di Alain-Fournier, che obbedisce al richiamo di una voce misteriosa e indecifrabile.
Questi e altri concetti, sviluppati nel manifesto del 1934, saranno ripresi da Bo in Letteratura come vita, punto di sintesi e di arrivo di una mai terminata meditazione.
Betocchi poeta della croce
La vocazione poetica di Carlo Betocchi matura nei cantieri, a contatto con una fatica quotidiana che segnerà le sue prime raccolte poetiche, soprattutto Realtà vince il sogno (1932) e Altre poesie (1939).
I versi dell’esordiente Betocchi, accolti sul «Frontespizio» e specchio di vasti settori della cultura cattolica di quegli anni, mirano a dar voce alle sofferenze e alle speranze degli umili, come testimonia anche il titolo della prima raccolta, Realtà vince il sogno. Esso si riferisce, infatti, alla proiezione oltremondana di ogni aspettativa di beatitudine: la realtà, anzi, la certezza, cui si allude, è quella che corona il sogno dei poveri che si affidano a Dio, addirittura meglio di ogni previsione (ecco il perché del termine vince). Una poesia, dunque, che ha intenzioni catartiche, percorsa dalla speranza, consolatoria.
Con la seconda raccolta, Altre poesie, sulla scia dell’approfondimento del problema del dolore, condotto sulla scorta dell’Imitazione di Cristo, assistiamo a un distacco dalla poesia degli esordi, poiché Betocchi invita in modo sempre più esplicito all’accettazione della via crucis, della croce piantata nel cuore della vita (cfr. Alla dolorosa Provvidenza). S’intuisce, dunque, la distanza rispetto ai tempi della poesia consolatrice, ferma restando l’unità di un canzoniere che resta, fondamentalmente, un trionfo della croce. Il proposito di accettare la sofferenza sarà però stravolto dalla triste sorte toccata alla compagna di una vita. La malattia di quest’ultima, troppo assurda e crudele per essere accolta con rassegnazione, condurrà anche il poeta della pazienza al tempo umano della protesta. Dal trauma della scomparsa di un Dio onnipotente Betocchi non si riavrà più; tuttavia, pur perduta la fede e la speranza, dell’antica religione resisterà la carità, la pietà per le creature, memore di quel Gesù, esempio supremo del dimenticare sé stesso per tutti gli altri.
La “civitas christiana” di Comi
Aristocrazia del Cattolicesimo è stato ingiustamente accusato di classismo, senza valorizzarne la prospettiva ascetica. Certo, lo scritto di Girolamo Comi evidenzia una visione gerarchica della società, ma l’aristocrazia cui si riferisce riguarda ciò che il Cattolicesimo propone di esemplare, inimitabile ed eterno. In questo senso è fondamentale anzitutto il ruolo che l’autore assegna alla classe politica: favorire la crescita integrale della persona; per questo egli respinge ogni idea di laicità dello Stato e per questo, inizialmente, in pieno clima concordatario, mostra una certa apertura verso il fascismo, per poi ricredersi con l’evolversi degli eventi. Ma, all’inizio, il fascismo sembra risponda ai suoi ideali: un buon governo che non si richiami al Vangelo è per lui impensabile, perciò, come si vede in Bolscevismo contro Cristianesimo, condanna con tanta forza il comunismo, a motivo dell’ateismo dichiarato di questa ideologia. Una condanna sempre presente in Comi, ma che viene via via attenuata, anche sulla scia di Umanesimo integrale di Maritain. In Riflessioni e vedute sul comunismo marxistico (1950), infatti, si nota una nuova disponibilità a comprenderne anche le ragioni storiche. Complice il filosofo francese, Comi scopre nel marxismo aspetti condivisibili, non foss’altro perché prima di far parte di esso già presenti nella Bibbia e nel magistero della Chiesa. Comi arriva addirittura a vedere nel comunismo una sorta di funzione provvidenziale, quella di scuotere le coscienze di tanti cristiani superficiali, incoerenti rispetto al loro credo, in particolare di quei politici che, facendo parte della Democrazia Cristiana, erano chiamati, a maggior ragione, a questa rispondenza tra fede e opere. In tal senso capiamo perché Comi si schieri al fianco di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze strenuamente impegnato in campo sociale, soprattutto a sostegno di operai e sfrattati: forse l’unico uomo politico di quegli anni pienamente rispondente agli ideali di Comi, in virtù della sua azione improntata agli ideali evangelici.
«L’Uomo» integrale
Dopo l’8 settembre e proseguendo sino al 1° settembre 1946 esce a Milano un foglio che ha il sapore di un’utopia: «L’Uomo», “pagine di vita morale”, iniziativa di un sodalizio di maestri e discepoli dell’Università Cattolica, tra cui Mario Apollonio, Gustavo Bontadini e Dino Del Bo.
Un’operazione che riflette l’ansia di partecipazione di certi intellettuali cattolici davanti al comune dolore e agli urgenti problemi della ricostruzione; una proposta di umanesimo cristiano che si candida come concezione perenne, sempre attuale, al di là del momento storico. Esemplare, in tal senso, l’editoriale del n° 14, significativamente intitolato Politica come cultura, dove Del Bo prospetta un’integrazione tra lavoro intellettuale e amministrazione della cosa pubblica. «L’Uomo» si pone, dunque, come obiettivo la ricerca del programma più rispondente a un umanesimo integrale e affida alla cultura cattolica un compito alto e delicato, quello di guida ufficiale del partito diventato maggioritario in Italia. Attribuire alla Democrazia Cristiana un volto preciso, offrirle «una teoria e una prassi di umanesimo cristiano», farla rimanere fedele al modello evangelico di convivenza sociale: ecco il compito assegnato dall’«Uomo» agli intellettuali cattolici in campo politico.
Sul piano letterario l’«Uomo» è legato soprattutto all’ermetismo critico, ma proprio questa volontaria distrazione dalla vita pubblica, non collimante con l’istanza di partecipazione e l’idea di cultura avanzata da una parte del gruppo, porta il sodalizio a spegnersi rapidamente.
Don Primo Mazzolari e il cattolicesimo sociale del secondo dopoguerra
Il 15 gennaio 1949 inizia la pubblicazione di «Adesso», rivista promossa da don Primo Mazzolari. È il periodo di piena affermazione della DC che, se da un lato ottiene un potere illimitato, dall’altro è esposta a una serie di aspettative incrociate. Un atteggiamento, quello di tallonarla, ammonirla, vagliarne l’operato alla luce dei precetti cristiani, che viene assunto anche da «Adesso». Il radicalismo cristiano viene trasferito da don Mazzolari su un terreno politico e sociale, tanto da meritargli la fama di prete scomodo. In effetti egli mira dritto al segno, con l’ardore e la schiettezza della fede del profeta; ed è proprio l’intreccio tra impegno politico e spirito di profezia a costituire la caratteristica principale della vocazione cristiana del parroco di Bozzolo. Così su «Adesso» si parla apertamente di rivoluzione cristiana e la rivista soddisfa quella richiesta di nuova cultura auspicata anche da Elio Vittorini sul primo numero del «Politecnico». Come lui don Mazzolari, infatti, mira a «una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze […], che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù». Non a caso La parola ai poveri è una rubrica fissa di «Adesso», indicando l’oggetto di un impegno privilegiato, i poveri, immagine di un Cristo sofferente che andava subito soccorso.
Convinto anticomunista, Mazzolari vuole, in particolare, coinvolgere nella rivoluzione cristiana la massa ancora obbediente alle parole d’ordine del comunismo; ma come fare breccia in essa? «Adesso» indica la strada di una fede vissuta nella concretezza delle situazioni, delle responsabilità del momento; la diffusione del comunismo, infatti, secondo Mazzolari dipende proprio dal venir meno di figure cristiane esemplari. L’apostolato di «Adesso», quindi, viene diretto anche sul fronte della cattiva testimonianza che troppi cristiani danno della propria fede; lo sguardo del parroco di Bozzolo, al contrario, è fisso sulla città ideale, cui quella terrena viene commisurata continuamente, ed egli non esita a indicare e chiamare quella patria più vera col nome di Paradiso.
La “parola partecipata”: Mario Apollonio tra letteratura e comunicazioni sociali
Letteratura dei contemporanei (1956) è il seguito ideale di Storia della letteratura italiana (1954). Mario Apollonio compie un atto di fede nella letteratura contemporanea, dedicandole addirittura un volume a parte. È il primo a proporre una didattica a ritroso della letteratura italiana, che faccia leva, cioè, sui contemporanei per muovere alla conquista del passato. Molto ci sarebbe da dire sull’impostazione e sulle implicazioni culturali di quest’opera, ma qui preme sottolineare questo: più volte Apollonio sottolinea lo strappo creatosi nel Novecento tra cultura e società. Chi, come lui, si è consacrato interamente alla parola mal sopporta il confinamento della letteratura in una zona marginale; ma poiché essa ha perso gran parte del suo prestigio, cosa potrebbe surrogarla?
Apollonio capisce che nella società mediatica luogo fondamentale di scambio verbale stanno diventando i mezzi di comunicazione di massa. L’Appendice sulla Cultura di massa che arricchisce l’edizione del 1969 dei Contemporanei nasce proprio da questa scommessa: che giornali, rotocalchi, cinema, radio e, infine, televisione possano offrire alla parola, in forza della loro pervasività, il più straordinario dei trionfi, attuando quella richiesta di partecipazione avanzata con forza dal Cristianesimo. Apollonio, quindi, guarda all’universo mediatico come a una grande opportunità, capace di avere effetti positivi se gestito nella prospettiva di un umanesimo integrale. Purtroppo il tempo mostrerà ad Apollonio il fallimento della sua utopia mediatica, ma in quel momento la partita è ancora aperta ed egli concepisce la televisione come mezzo culturale, cercando – da intellettuale cristiano – di concorrere a determinarne le finalità e le regole.
In tal modo egli non vuole togliere alla letteratura le sue prerogative, bensì cogliere tra le due forme di comunicazione una dialettica feconda per entrambe. Nell’inquadramento di queste molteplici dinamiche, che intrecciano i destini della letteratura con quelli delle comunicazioni sociali in una serie di reciproci condizionamenti, consiste l’originalità dell’Appendice di Apollonio, primo tentativo di osservare la letteratura e i suoi cambiamenti nel sistema globale delle comunicazioni.
G.V.
La profondità dei temi trattati in questi studi, che meritano di essere letti nella loro interezza, ha suggerito, qui più che altrove, di tratteggiare dei brevi quadri, volti solo a orientare il lettore in una materia così complessa. Seguiremo, come già fatto nei precedenti lavori, la divisione in capitoli voluta dall’autore.
Tra storia e utopia non ci sono mai stati buoni rapporti; la storia sembra fatta per distruggere i sogni, ma l’utopia rinasce sempre. Nel suo obbedire all’utopia, la storia si redime, trasformandosi da mysterium iniquitatis in historia salutis. Anche se gli “uomini” e le “riviste” trattati in questo libro si collocano tutti in ambito cattolico, Langella tiene a precisare che l’utopia appartiene a tutti, non è appannaggio di nessuno, come confermano, fra l’altro, i continui riferimenti al «Politecnico», al «Ponte» e alla «Nuova Europa».
La “seconda nascita” di Papini
Nel primo dopoguerra si sente la necessità di tornare a Manzoni; tra i promotori di questo ritorno allo scrittore lombardo, passato anch’esso – ricordiamolo – attraverso l’esperienza della conversione, vi è Giovanni Papini, protagonista di un sofferto percorso verso Dio. Egli abbandona i suoi pregiudizi su Manzoni proprio in concomitanza con la svolta spirituale: nell’anno in cui dà alle stampe la Storia di Cristo – lavoro che testimonia il suo tragitto da Gesù alla Chiesa – pubblica anche Le più belle pagine di Alessandro Manzoni.
Per Papini l’autore lombardo conta anzitutto come modello morale, per questo predilige le Osservazioni sulla morale cattolica, grazie alle quali individua nell’impegno apologetico la forma migliore di presenza pubblica del convertito nella società. In Manzoni, allora, Papini cerca indicazioni che lo aiutino a definire il suo ruolo di cattolico scrittore. Sempre sulla scia dei testi manzoniani, Papini arriva anche a comprendere che tra uomo vecchio e uomo nuovo corre un rapporto dialettico, poiché la Grazia prende ciò che di buono c’è nella natura e lo incanala in un piano di salvezza.
La stesura della Seconda nascita, iniziata nell’aprile 1923, risente di questa visione maturata negli anni precedenti. In questo testo Papini rievoca la sua vita passata, alla ricerca delle tappe salienti del suo avvicinamento a Dio, esibendo certi tratti di continuità tra il suo passato di ateo e il suo presente di uomo di fede. Un ruolo centrale è ancora attribuito a Manzoni, che qui diventa anche modello di pudore e umiltà, conducendo Papini a interrompere il suo racconto, reprimendo la spinta all’esibizione autobiografica. L’opera, di fatto, uscirà postuma.
Borgese e il “sopramondo” dell’arte
Anche Giuseppe Antonio Borgese riconosce a Manzoni un ruolo di spicco nel proporre agli scrittori la via dell’impegno. In particolare, nel momento in cui sta diventando di moda una letteratura a sfondo religioso sulla scia delle tante conversioni di quel periodo, Borgese invita a prestare attenzione alla delicatezza dell’argomento e addita Manzoni come esempio, autore di un romanzo in cui l’impronta cristiana è tanto radicata quanto poco appariscente. L’esibizione del proprio credo, infatti, infastidisce Borgese, perenne cercatore di Dio, giunto a una fede non confessionale e vissuta nel proprio intimo.
Tanto sono ferme, perciò, le opere di Papini nella proclamazione del dogma, spinte dalla propaganda fides, quanto appaiono invece travagliate e segnate dall’itinerarium ad fidem quelle di Borgese. Mentre Papini pone le sue qualità di scrittore al servizio della diffusione del Vangelo, Borgese rivendica all’arte in generale, e alla letteratura in particolare, un ruolo più alto, una propria santità, ritenendole esse stesse una sorta di religione.
Il problema religioso torna in tutta la produzione di Borgese, a partire dal Rubè (1921), in cui numerose – come del resto in tutti i suoi testi – sono le citazioni e i riferimenti manzoniani, dalla Pentecoste ai Promessi Sposi, dall’Adelchi alla Morale Cattolica.
Se Rubè è la storia di una conversione mancata, che rimette tuttavia nelle mani di Dio ogni decisione in merito alla salvezza o alla dannazione di una persona, I vivi e i morti (1923) è il romanzo di una conversione inseguita per tutta la vita, mentre il dramma Lazzaro (1926) ruota intorno al motivo della fede che, pur senza vedere il miracolo, vince ogni incredulità.
Carlo Bo e il “paese dell’anima”
In quello che va considerato il primo manifesto dell’ermetismo fiorentino, Riconoscenza alla poesia (1934), Carlo Bo attribuisce alla poesia uno statuto conoscitivo, concependola come accanita ricerca di un assoluto; poesia, dunque, come tortuosa via verso la fede. A sostegno di questa idea Bo guarda anzitutto ai simbolisti, in primo luogo a Baudelaire, ma anche a Goethe e ad Alain-Fournier.
Nel viaggio alle Madri del Faust goethiano Bo vede riflessa la sfida più alta che la letteratura abbia mai lanciato a sé stessa: svelare il senso ultimo dell’esistenza. Ma, al tempo stesso, egli non si nasconde la difficoltà insormontabile incontrata dal poeta quando vuole tradurre in parole umane i misteri su cui ha fissato lo sguardo, tanto che l’approdo finale diventa l’afasia: non, però, un silenzio di disfatta, bensì l’attestazione del compimento di un viaggio. C’è, infatti, differenza tra il silenzio di chi attende, ancora, l’attimo dell’illuminazione e quello di chi, già, ha visto le Madri.
Ma è all’Alain-Fournier del Grand Meaulnes che Bo, mistico allo stato selvaggio, continuamente in ricerca, guarda in questi anni come guida spirituale, al motivo da questi sviluppato del desiderio del paese dell’anima. Il tema della partenza e del viaggio dei poeti alla ricerca di questo paese, infatti, è già adombrato nel protagonista di Alain-Fournier, che obbedisce al richiamo di una voce misteriosa e indecifrabile.
Questi e altri concetti, sviluppati nel manifesto del 1934, saranno ripresi da Bo in Letteratura come vita, punto di sintesi e di arrivo di una mai terminata meditazione.
Betocchi poeta della croce
La vocazione poetica di Carlo Betocchi matura nei cantieri, a contatto con una fatica quotidiana che segnerà le sue prime raccolte poetiche, soprattutto Realtà vince il sogno (1932) e Altre poesie (1939).
I versi dell’esordiente Betocchi, accolti sul «Frontespizio» e specchio di vasti settori della cultura cattolica di quegli anni, mirano a dar voce alle sofferenze e alle speranze degli umili, come testimonia anche il titolo della prima raccolta, Realtà vince il sogno. Esso si riferisce, infatti, alla proiezione oltremondana di ogni aspettativa di beatitudine: la realtà, anzi, la certezza, cui si allude, è quella che corona il sogno dei poveri che si affidano a Dio, addirittura meglio di ogni previsione (ecco il perché del termine vince). Una poesia, dunque, che ha intenzioni catartiche, percorsa dalla speranza, consolatoria.
Con la seconda raccolta, Altre poesie, sulla scia dell’approfondimento del problema del dolore, condotto sulla scorta dell’Imitazione di Cristo, assistiamo a un distacco dalla poesia degli esordi, poiché Betocchi invita in modo sempre più esplicito all’accettazione della via crucis, della croce piantata nel cuore della vita (cfr. Alla dolorosa Provvidenza). S’intuisce, dunque, la distanza rispetto ai tempi della poesia consolatrice, ferma restando l’unità di un canzoniere che resta, fondamentalmente, un trionfo della croce. Il proposito di accettare la sofferenza sarà però stravolto dalla triste sorte toccata alla compagna di una vita. La malattia di quest’ultima, troppo assurda e crudele per essere accolta con rassegnazione, condurrà anche il poeta della pazienza al tempo umano della protesta. Dal trauma della scomparsa di un Dio onnipotente Betocchi non si riavrà più; tuttavia, pur perduta la fede e la speranza, dell’antica religione resisterà la carità, la pietà per le creature, memore di quel Gesù, esempio supremo del dimenticare sé stesso per tutti gli altri.
La “civitas christiana” di Comi
Aristocrazia del Cattolicesimo è stato ingiustamente accusato di classismo, senza valorizzarne la prospettiva ascetica. Certo, lo scritto di Girolamo Comi evidenzia una visione gerarchica della società, ma l’aristocrazia cui si riferisce riguarda ciò che il Cattolicesimo propone di esemplare, inimitabile ed eterno. In questo senso è fondamentale anzitutto il ruolo che l’autore assegna alla classe politica: favorire la crescita integrale della persona; per questo egli respinge ogni idea di laicità dello Stato e per questo, inizialmente, in pieno clima concordatario, mostra una certa apertura verso il fascismo, per poi ricredersi con l’evolversi degli eventi. Ma, all’inizio, il fascismo sembra risponda ai suoi ideali: un buon governo che non si richiami al Vangelo è per lui impensabile, perciò, come si vede in Bolscevismo contro Cristianesimo, condanna con tanta forza il comunismo, a motivo dell’ateismo dichiarato di questa ideologia. Una condanna sempre presente in Comi, ma che viene via via attenuata, anche sulla scia di Umanesimo integrale di Maritain. In Riflessioni e vedute sul comunismo marxistico (1950), infatti, si nota una nuova disponibilità a comprenderne anche le ragioni storiche. Complice il filosofo francese, Comi scopre nel marxismo aspetti condivisibili, non foss’altro perché prima di far parte di esso già presenti nella Bibbia e nel magistero della Chiesa. Comi arriva addirittura a vedere nel comunismo una sorta di funzione provvidenziale, quella di scuotere le coscienze di tanti cristiani superficiali, incoerenti rispetto al loro credo, in particolare di quei politici che, facendo parte della Democrazia Cristiana, erano chiamati, a maggior ragione, a questa rispondenza tra fede e opere. In tal senso capiamo perché Comi si schieri al fianco di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze strenuamente impegnato in campo sociale, soprattutto a sostegno di operai e sfrattati: forse l’unico uomo politico di quegli anni pienamente rispondente agli ideali di Comi, in virtù della sua azione improntata agli ideali evangelici.
«L’Uomo» integrale
Dopo l’8 settembre e proseguendo sino al 1° settembre 1946 esce a Milano un foglio che ha il sapore di un’utopia: «L’Uomo», “pagine di vita morale”, iniziativa di un sodalizio di maestri e discepoli dell’Università Cattolica, tra cui Mario Apollonio, Gustavo Bontadini e Dino Del Bo.
Un’operazione che riflette l’ansia di partecipazione di certi intellettuali cattolici davanti al comune dolore e agli urgenti problemi della ricostruzione; una proposta di umanesimo cristiano che si candida come concezione perenne, sempre attuale, al di là del momento storico. Esemplare, in tal senso, l’editoriale del n° 14, significativamente intitolato Politica come cultura, dove Del Bo prospetta un’integrazione tra lavoro intellettuale e amministrazione della cosa pubblica. «L’Uomo» si pone, dunque, come obiettivo la ricerca del programma più rispondente a un umanesimo integrale e affida alla cultura cattolica un compito alto e delicato, quello di guida ufficiale del partito diventato maggioritario in Italia. Attribuire alla Democrazia Cristiana un volto preciso, offrirle «una teoria e una prassi di umanesimo cristiano», farla rimanere fedele al modello evangelico di convivenza sociale: ecco il compito assegnato dall’«Uomo» agli intellettuali cattolici in campo politico.
Sul piano letterario l’«Uomo» è legato soprattutto all’ermetismo critico, ma proprio questa volontaria distrazione dalla vita pubblica, non collimante con l’istanza di partecipazione e l’idea di cultura avanzata da una parte del gruppo, porta il sodalizio a spegnersi rapidamente.
Don Primo Mazzolari e il cattolicesimo sociale del secondo dopoguerra
Il 15 gennaio 1949 inizia la pubblicazione di «Adesso», rivista promossa da don Primo Mazzolari. È il periodo di piena affermazione della DC che, se da un lato ottiene un potere illimitato, dall’altro è esposta a una serie di aspettative incrociate. Un atteggiamento, quello di tallonarla, ammonirla, vagliarne l’operato alla luce dei precetti cristiani, che viene assunto anche da «Adesso». Il radicalismo cristiano viene trasferito da don Mazzolari su un terreno politico e sociale, tanto da meritargli la fama di prete scomodo. In effetti egli mira dritto al segno, con l’ardore e la schiettezza della fede del profeta; ed è proprio l’intreccio tra impegno politico e spirito di profezia a costituire la caratteristica principale della vocazione cristiana del parroco di Bozzolo. Così su «Adesso» si parla apertamente di rivoluzione cristiana e la rivista soddisfa quella richiesta di nuova cultura auspicata anche da Elio Vittorini sul primo numero del «Politecnico». Come lui don Mazzolari, infatti, mira a «una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze […], che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù». Non a caso La parola ai poveri è una rubrica fissa di «Adesso», indicando l’oggetto di un impegno privilegiato, i poveri, immagine di un Cristo sofferente che andava subito soccorso.
Convinto anticomunista, Mazzolari vuole, in particolare, coinvolgere nella rivoluzione cristiana la massa ancora obbediente alle parole d’ordine del comunismo; ma come fare breccia in essa? «Adesso» indica la strada di una fede vissuta nella concretezza delle situazioni, delle responsabilità del momento; la diffusione del comunismo, infatti, secondo Mazzolari dipende proprio dal venir meno di figure cristiane esemplari. L’apostolato di «Adesso», quindi, viene diretto anche sul fronte della cattiva testimonianza che troppi cristiani danno della propria fede; lo sguardo del parroco di Bozzolo, al contrario, è fisso sulla città ideale, cui quella terrena viene commisurata continuamente, ed egli non esita a indicare e chiamare quella patria più vera col nome di Paradiso.
La “parola partecipata”: Mario Apollonio tra letteratura e comunicazioni sociali
Letteratura dei contemporanei (1956) è il seguito ideale di Storia della letteratura italiana (1954). Mario Apollonio compie un atto di fede nella letteratura contemporanea, dedicandole addirittura un volume a parte. È il primo a proporre una didattica a ritroso della letteratura italiana, che faccia leva, cioè, sui contemporanei per muovere alla conquista del passato. Molto ci sarebbe da dire sull’impostazione e sulle implicazioni culturali di quest’opera, ma qui preme sottolineare questo: più volte Apollonio sottolinea lo strappo creatosi nel Novecento tra cultura e società. Chi, come lui, si è consacrato interamente alla parola mal sopporta il confinamento della letteratura in una zona marginale; ma poiché essa ha perso gran parte del suo prestigio, cosa potrebbe surrogarla?
Apollonio capisce che nella società mediatica luogo fondamentale di scambio verbale stanno diventando i mezzi di comunicazione di massa. L’Appendice sulla Cultura di massa che arricchisce l’edizione del 1969 dei Contemporanei nasce proprio da questa scommessa: che giornali, rotocalchi, cinema, radio e, infine, televisione possano offrire alla parola, in forza della loro pervasività, il più straordinario dei trionfi, attuando quella richiesta di partecipazione avanzata con forza dal Cristianesimo. Apollonio, quindi, guarda all’universo mediatico come a una grande opportunità, capace di avere effetti positivi se gestito nella prospettiva di un umanesimo integrale. Purtroppo il tempo mostrerà ad Apollonio il fallimento della sua utopia mediatica, ma in quel momento la partita è ancora aperta ed egli concepisce la televisione come mezzo culturale, cercando – da intellettuale cristiano – di concorrere a determinarne le finalità e le regole.
In tal modo egli non vuole togliere alla letteratura le sue prerogative, bensì cogliere tra le due forme di comunicazione una dialettica feconda per entrambe. Nell’inquadramento di queste molteplici dinamiche, che intrecciano i destini della letteratura con quelli delle comunicazioni sociali in una serie di reciproci condizionamenti, consiste l’originalità dell’Appendice di Apollonio, primo tentativo di osservare la letteratura e i suoi cambiamenti nel sistema globale delle comunicazioni.
G.V.