Italo Svevo
Edizioni Morano, Napoli (1992)
Nel primo capitolo Langella mette in evidenza la novità dell’opera di Italo Svevo, tra i fondatori del romanzo europeo del Novecento, rispetto alla produzione precedente. Tale novità gli ha però procurato, per un lungo periodo, l’incomprensione della critica.
L’analisi del caso Svevo parte prendendo in considerazione la biografia dello scrittore, che tanto si rifletterà anche sui suoi personaggi. In particolare Langella mette in evidenza l’origine triestina di Svevo: la Trieste di secondo Ottocento è un fiorente centro commerciale, in cui la cultura stenta a svilupparsi, dove, anzi, l’arte è vista come un vizio, una passione proibita, o al massimo un innocuo passatempo. Lo stesso Svevo è avviato alla carriera commerciale. La sua opera finirà, così, per rispecchiare questo conflitto tra due modelli di vita alternativi. Attorno a questa problematica Svevo costruisce i suoi romanzi e i suoi personaggi, sempre divisi tra l’istinto a tuffarsi nella lotta per la vita e quello a fuggire da essa.
Ma la Trieste di Svevo è anche altro: in essa ritroviamo gruppi etnico-linguistici diversi, che faticano a comprendersi e ad amalgamarsi. Anche questo disagio si riflette nelle pagine di Svevo, dando vita a personaggi che faticano ad adattarsi a un ambiente sociale estraneo e ostile. Il disagio di Svevo e dei suoi personaggi è poi acuito dall’appartenenza alla comunità ebraica. Ricordiamo, infatti, che Italo Svevo è solo uno pseudonimo, mentre all’anagrafe egli era registrato come Aronne Ettore Schmitz. I legami dello scrittore con le sue radici sono maggiori di quanto non si creda: basti pensare al cognome con cui a un certo punto iniziò a firmare i suoi articoli, “Samigli”, calco dell’ebraico schlemihl, cioè lo sfortunato, il buono a nulla, il sognatore. I personaggi sveviani conserveranno tratti di questo ebreo fallito. Sarebbe riduttivo, tuttavia, limitare l’opera di Svevo alla rappresentazione dello schlemihl, o meglio – come sottolineato da Giacomo Debenedetti – collegarlo solo al mondo ebraico, poiché questo “tipo” umano è riscontrabile un po’ ovunque.
Ma accostiamoci più da vicino alla produzione di Svevo: i primi testi risalgono al 1888 e al 1890; si tratta di due racconti, Una lotta e L’assassinio di via Belpoggio, comparsi sul quotidiano triestino «L’Indipendente»: in nuce anticipano già quelle tipologie umane e quei meccanismi della coscienza sviluppati nelle opere successive. Sia con Una vita (1892), sia con Senilità (1898), ci troveremo davanti a due autobiografie differite, espediente necessario – insieme all’ironia – per non trasformare i suoi romanzi in semplici confessioni. Prima di analizzare la produzione maggiore dell’autore, Langella si sofferma sulla formazione di Svevo, sottolineandone i punti di contatto, ma anche di divergenza, con Darwin e Schopenhauer. Le teorie evoluzionistiche di Darwin vengono lette da Svevo in chiave ebraica, private di quella fede ottimistica nel progresso umano propria del naturalista inglese. Al contrario di quest’ultimo la simpatia di Svevo ricadrà sempre sul vinto; un darwinismo capovolto, evidente sin da Una lotta, dove già ritroviamo il conflitto tra sognatori e lottatori tanto caro a Svevo. Arturo è il primo di una lunga serie di sognatori ad occhi aperti che, incapaci di guardare in faccia la realtà, la fuggono anche attraverso la compensazione letteraria. Darwin è presente anche nell’Assassinio di via Belpoggio, rappresentazione dei condizionamenti sociali, del potere del gruppo su ogni individuo; Darwin offre, cioè, le sponde sociali in cui si vengono a muovere i personaggi sveviani.
Un sostegno ontologico alla teoria darwiniana dello struggle for life Svevo trova nell’idea della volontà di vivere che sta a fondamento del pensiero di Schopenhauer. Dal filosofo tedesco viene ripreso anche il concetto della noia come supplizio delle classi superiori, dalla quale esse continuamente cercano di fuggire. Alla luce di Schopenhauer si comprende, fra l’altro, l’atteggiamento di Alfonso, il giovane protagonista di Una vita, dopo aver conquistato Annetta, così come il suo stesso suicidio, affermazione estrema della propria volontà e soppressione di quell’organismo senza pace che «vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché fatto a quello scopo».
Accanto a Darwin e a Schopenhauer, Langella mette in evidenza il debito di Svevo anche nei confronti del realismo francese, in particolare verso Balzac e Flaubert. Il primo ha un doppio merito: non solo di aver intrapreso la navigazione nel mare della realtà, ma anche, tramite il suo Louis Lambert, di aver reso consapevole Svevo dell’esistenza di una seconda esistenza, più importante di quella esteriore: quella della coscienza. A questa dimensione interiore Svevo darà grande importanza in tutti i suoi testi. Con Balzac, dunque, l’introspezione è già spinta abbastanza avanti da conferire al realismo anche l’aspetto dell’analisi psicologica. Su questa strada prosegue anche Flaubert, svelando fino a che punto la coscienza reagisca agli stimoli esterni: si pone cioè l’attenzione sulle dinamiche della coscienza; il campo è invaso dall’irrazionale, dal sogno a occhi aperti, dolci inganni privi di sbocchi concreti nella realtà, che rivestono una funzione compensatoria. Da questi maestri Svevo raccoglie, però, anche altri lasciti, come lo schema oppositivo della coppia di caratteri complementari, così da far risaltare due nature opposte, gabbiani e pesci, lottatori e sognatori.
Nei capitoli centrali di questa monografia Langella si sofferma sui tre romanzi di Svevo, partendo da Una vita, in cui viene dato ampio spazio allo scandaglio della coscienza, seppure ancora inserito in una descrizione dai tratti veristici. Subito, però, ci si rende conto che Svevo va oltre: anzitutto è usata una tecnica che Joyce renderà famosa, quella dell’epifania improvvisa di una verità attraverso un oggetto o un evento del mondo che circonda il personaggio. Inoltre la descrizione dei luoghi serve per delineare meglio la psicologia perdente di Alfonso, affinché, entrando in attrito con determinate realtà, risalti meglio il suo dramma umano. L’attenzione si concentra soprattutto sull’ambiente bancario, dando modo a Svevo di stigmatizzare la struttura gerarchica dei rapporti e la natura alienante del lavoro. La banca diventa esemplificazione di una spietata selezione naturale, della “lotta per la vita” di darwiniana memoria, una lotta a cui – pur nella sua personalità eternamente adolescente e con i pochi mezzi a disposizione – anche Alfonso deve adattarsi. Svevo scandaglia in profondità il personaggio, dandone una proiezione stratigrafica: ce lo mostra poco efficiente nello svolgimento delle sue incombenze d’ufficio, goffo e impacciato nelle relazioni interpersonali, sempre incapace di fare un esame obiettivo della situazione, perseguitato da un costante malcontento. Ne emerge il ritratto di un uomo che non sa: un inetto sul piano dell’azione ma anche dell’intelletto e del sentimento.
Questo primo romanzo spiana la strada a Senilità: la scrittura è ormai diventata strumento d’introspezione, atto a tirar fuori dalle zone subliminali della coscienza ciò che vi è depositato. Il mondo interiore del personaggio prende il posto degli avvenimenti. Tutto il plot narrativo è basato su quattro personaggi, Emilio Brentani e la sorella Amalia, lo scultore Stefano Balli e l’adescatrice Angiolina Zarri (un romanzo da camera, dunque, come ebbe a definirlo Carlo Annoni). L’indagine non tocca più la società ma il doppio protagonista, per il quale Svevo usa la metafora del vaso vuoto: niente dà senso alle due esistenze incolori di Emilio e Amalia, per questo la passione che irrompe, tardiva e a sorpresa, nelle loro vite assume una forza sconvolgente, diventando sentimento esclusivo. In questo testo, inoltre, l’autore triestino riporta fenomeni di rimozione, di sublimazione, d’introiezione, di rovesciamento dei dati, mentre in Una vita Alfonso aveva dato vita a comportamenti regressivi e a scelte d’isolamento. Caratteristico, in particolare, è il meccanismo della denegazione con cui Emilio cancella dalla coscienza le verità scomode, che non può ammettere senza vergognarsene. Centrale diventa anche il sogno compensatorio, derivante dall’esperienza negativa. Persino la letteratura acquista una simile funzione: Emilio, infatti, va incontro all’arte con lo stesso desiderio di oblio e gratificazione che spinge Amalia a drogarsi con l’etere, tant’è che la stesura del suo romanzo verrà interrotta quando il personaggio si renderà conto che nessuna occupazione letteraria avrebbe potuto sopprimere in lui il bisogno di rivedere la donna amata. Né è casuale che i temi chiave di Senilità si raccolgano intorno alla festa del Carnevale: esso prefigura il destino dei due Brentani, ma mentre Emilio riesce a ritornare al precedente regime di vita senile, Amalia non troverà più la quaresima. Il Carnevale, come le utopie di Emilio, il delirio di Amalia, la finzione e l’esibizionismo di Angiolina, è il momento in cui l’immaginazione trionfa sulla realtà e, nella finzione, è possibile realizzare i propri desideri proibiti (si tratta, dunque, della dialettica tra verità e menzogna propria dell’intera opera sveviana). Un periodo, tuttavia, transitorio – Svevo ne è consapevole – solo una breve parentesi nell’interminabile quaresima fatta di rinunce, doveri, vita apatica e ripetitiva.
Svevo giunge alla Coscienza di Zeno (1923) dopo un lungo silenzio, durato un quarto di secolo. La psicanalisi è assunta come cornice della vicenda, ma questo non impedisce all’autore triestino di guardarla con occhio critico, tanto che il romanzo si risolverà in una liquidazione pressoché totale delle dottrine freudiane. L’ironia che spesso accompagna i riferimenti alla pratica analitica conferma lo scetticismo di Svevo nei confronti tanto della teoria (che riconduce tutti i disturbi al complesso edipico), quanto della terapia (nel caso di Zeno decisamente fallimentare) e del metodo (postulando la sincerità del paziente). La confutazione viene resa esplicita solo nell’ultimo capitolo del romanzo, scritto in forma di diario. La coscienza di Zeno si configura, dunque, come un confronto serrato con la scienza freudiana della psiche. Questo fatto è ben visibile, ad esempio, nel confronto tra Zeno e suo padre, dove i termini del rapporto edipico stabiliti da Freud vengono rovesciati: chi teme di essere giudicato, sbeffeggiato, castrato, è il genitore, soggetto alla figura dominante e paurosa del figlio. Ma c’è di più: in quest’opera Svevo si libera anche dal rigido schematismo darwiniano che premiava i più forti condannando i più deboli; la vera vita – arriva a sostenere Svevo – sta nel difetto che spinge a migliorarsi: la superiorità di Zeno sta proprio nell’impetuoso conato al meglio che lo contraddistingue. Viene, dunque, riconsiderato il problema dello schlemihl. Chi nasce con un’inclinazione contemplativa e timida non deve sentirsi svantaggiato rispetto al lottatore, possedendo qualità sconosciute all’altro. Zeno, così, può uscire dal confronto con gli altri personaggi finalmente vincitore, dando prova di grandi risorse di adattamento, d’inventiva, di coraggio. Il personaggio sveviano non solo ha imparato ad accettare certi suoi limiti, ma ha scoperto di possedere un potenziale nascosto di risorse che neppure si sognava. La sua metamorfosi è avvenuta sul piano della coscienza. Capiamo, allora, anche la scelta della prima persona, l’autobiografia, per scrivere questo romanzo: Zeno, ormai, condivide del narratore onnisciente la saggezza, la serenità, e Svevo non ha più bisogno di prendere le distanze dal suo personaggio. Successo, malattia, salute, tutto ciò dipende da una convinzione e questa viene solo dalla scoperta di chi si è veramente, liberandosi da una presunta inferiorità. È quanto ci dice chiaramente Zeno nel suo diario, smentendo i quaderni destinati al dottor S., dove, leggendo la propria vita sulla scorta di un trattato di psicanalisi, si era rappresentato affetto dal complesso d’Edipo. In quei quaderni Zeno ha sì raccontato la sua vita, ma in controluce, all’insegna della nevrosi. Solo nell’ultimo capitolo affiora l’autentica personalità di Zeno, ragion per cui – suggerisce Langella – il romanzo andrebbe letto a ritroso. Solo al termine ci accorgiamo che il personaggio sveviano è finalmente salito in cattedra.
Il capitolo conclusivo della monografia è dedicato all’ultima grande stagione creativa di Svevo, contrassegnata dalla stesura di alcuni lunghi e importanti racconti (come Una burla riuscita, Corto viaggio sentimentale, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla), di una commedia (La rigenerazione) e soprattutto del cosiddetto “quarto romanzo”, ovvero Il vegliardo, interrotto per la morte dell’autore, vittima di un incidente stradale, nel 1928. Ma su questa specifica stagione Langella è tornato in maniera di gran lunga più analitica e con interpretazioni ancor più originali e convincenti in un libro successivo, Il tempo cristallizzato, cui si rinvia.
G.V.
L’analisi del caso Svevo parte prendendo in considerazione la biografia dello scrittore, che tanto si rifletterà anche sui suoi personaggi. In particolare Langella mette in evidenza l’origine triestina di Svevo: la Trieste di secondo Ottocento è un fiorente centro commerciale, in cui la cultura stenta a svilupparsi, dove, anzi, l’arte è vista come un vizio, una passione proibita, o al massimo un innocuo passatempo. Lo stesso Svevo è avviato alla carriera commerciale. La sua opera finirà, così, per rispecchiare questo conflitto tra due modelli di vita alternativi. Attorno a questa problematica Svevo costruisce i suoi romanzi e i suoi personaggi, sempre divisi tra l’istinto a tuffarsi nella lotta per la vita e quello a fuggire da essa.
Ma la Trieste di Svevo è anche altro: in essa ritroviamo gruppi etnico-linguistici diversi, che faticano a comprendersi e ad amalgamarsi. Anche questo disagio si riflette nelle pagine di Svevo, dando vita a personaggi che faticano ad adattarsi a un ambiente sociale estraneo e ostile. Il disagio di Svevo e dei suoi personaggi è poi acuito dall’appartenenza alla comunità ebraica. Ricordiamo, infatti, che Italo Svevo è solo uno pseudonimo, mentre all’anagrafe egli era registrato come Aronne Ettore Schmitz. I legami dello scrittore con le sue radici sono maggiori di quanto non si creda: basti pensare al cognome con cui a un certo punto iniziò a firmare i suoi articoli, “Samigli”, calco dell’ebraico schlemihl, cioè lo sfortunato, il buono a nulla, il sognatore. I personaggi sveviani conserveranno tratti di questo ebreo fallito. Sarebbe riduttivo, tuttavia, limitare l’opera di Svevo alla rappresentazione dello schlemihl, o meglio – come sottolineato da Giacomo Debenedetti – collegarlo solo al mondo ebraico, poiché questo “tipo” umano è riscontrabile un po’ ovunque.
Ma accostiamoci più da vicino alla produzione di Svevo: i primi testi risalgono al 1888 e al 1890; si tratta di due racconti, Una lotta e L’assassinio di via Belpoggio, comparsi sul quotidiano triestino «L’Indipendente»: in nuce anticipano già quelle tipologie umane e quei meccanismi della coscienza sviluppati nelle opere successive. Sia con Una vita (1892), sia con Senilità (1898), ci troveremo davanti a due autobiografie differite, espediente necessario – insieme all’ironia – per non trasformare i suoi romanzi in semplici confessioni. Prima di analizzare la produzione maggiore dell’autore, Langella si sofferma sulla formazione di Svevo, sottolineandone i punti di contatto, ma anche di divergenza, con Darwin e Schopenhauer. Le teorie evoluzionistiche di Darwin vengono lette da Svevo in chiave ebraica, private di quella fede ottimistica nel progresso umano propria del naturalista inglese. Al contrario di quest’ultimo la simpatia di Svevo ricadrà sempre sul vinto; un darwinismo capovolto, evidente sin da Una lotta, dove già ritroviamo il conflitto tra sognatori e lottatori tanto caro a Svevo. Arturo è il primo di una lunga serie di sognatori ad occhi aperti che, incapaci di guardare in faccia la realtà, la fuggono anche attraverso la compensazione letteraria. Darwin è presente anche nell’Assassinio di via Belpoggio, rappresentazione dei condizionamenti sociali, del potere del gruppo su ogni individuo; Darwin offre, cioè, le sponde sociali in cui si vengono a muovere i personaggi sveviani.
Un sostegno ontologico alla teoria darwiniana dello struggle for life Svevo trova nell’idea della volontà di vivere che sta a fondamento del pensiero di Schopenhauer. Dal filosofo tedesco viene ripreso anche il concetto della noia come supplizio delle classi superiori, dalla quale esse continuamente cercano di fuggire. Alla luce di Schopenhauer si comprende, fra l’altro, l’atteggiamento di Alfonso, il giovane protagonista di Una vita, dopo aver conquistato Annetta, così come il suo stesso suicidio, affermazione estrema della propria volontà e soppressione di quell’organismo senza pace che «vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché fatto a quello scopo».
Accanto a Darwin e a Schopenhauer, Langella mette in evidenza il debito di Svevo anche nei confronti del realismo francese, in particolare verso Balzac e Flaubert. Il primo ha un doppio merito: non solo di aver intrapreso la navigazione nel mare della realtà, ma anche, tramite il suo Louis Lambert, di aver reso consapevole Svevo dell’esistenza di una seconda esistenza, più importante di quella esteriore: quella della coscienza. A questa dimensione interiore Svevo darà grande importanza in tutti i suoi testi. Con Balzac, dunque, l’introspezione è già spinta abbastanza avanti da conferire al realismo anche l’aspetto dell’analisi psicologica. Su questa strada prosegue anche Flaubert, svelando fino a che punto la coscienza reagisca agli stimoli esterni: si pone cioè l’attenzione sulle dinamiche della coscienza; il campo è invaso dall’irrazionale, dal sogno a occhi aperti, dolci inganni privi di sbocchi concreti nella realtà, che rivestono una funzione compensatoria. Da questi maestri Svevo raccoglie, però, anche altri lasciti, come lo schema oppositivo della coppia di caratteri complementari, così da far risaltare due nature opposte, gabbiani e pesci, lottatori e sognatori.
Nei capitoli centrali di questa monografia Langella si sofferma sui tre romanzi di Svevo, partendo da Una vita, in cui viene dato ampio spazio allo scandaglio della coscienza, seppure ancora inserito in una descrizione dai tratti veristici. Subito, però, ci si rende conto che Svevo va oltre: anzitutto è usata una tecnica che Joyce renderà famosa, quella dell’epifania improvvisa di una verità attraverso un oggetto o un evento del mondo che circonda il personaggio. Inoltre la descrizione dei luoghi serve per delineare meglio la psicologia perdente di Alfonso, affinché, entrando in attrito con determinate realtà, risalti meglio il suo dramma umano. L’attenzione si concentra soprattutto sull’ambiente bancario, dando modo a Svevo di stigmatizzare la struttura gerarchica dei rapporti e la natura alienante del lavoro. La banca diventa esemplificazione di una spietata selezione naturale, della “lotta per la vita” di darwiniana memoria, una lotta a cui – pur nella sua personalità eternamente adolescente e con i pochi mezzi a disposizione – anche Alfonso deve adattarsi. Svevo scandaglia in profondità il personaggio, dandone una proiezione stratigrafica: ce lo mostra poco efficiente nello svolgimento delle sue incombenze d’ufficio, goffo e impacciato nelle relazioni interpersonali, sempre incapace di fare un esame obiettivo della situazione, perseguitato da un costante malcontento. Ne emerge il ritratto di un uomo che non sa: un inetto sul piano dell’azione ma anche dell’intelletto e del sentimento.
Questo primo romanzo spiana la strada a Senilità: la scrittura è ormai diventata strumento d’introspezione, atto a tirar fuori dalle zone subliminali della coscienza ciò che vi è depositato. Il mondo interiore del personaggio prende il posto degli avvenimenti. Tutto il plot narrativo è basato su quattro personaggi, Emilio Brentani e la sorella Amalia, lo scultore Stefano Balli e l’adescatrice Angiolina Zarri (un romanzo da camera, dunque, come ebbe a definirlo Carlo Annoni). L’indagine non tocca più la società ma il doppio protagonista, per il quale Svevo usa la metafora del vaso vuoto: niente dà senso alle due esistenze incolori di Emilio e Amalia, per questo la passione che irrompe, tardiva e a sorpresa, nelle loro vite assume una forza sconvolgente, diventando sentimento esclusivo. In questo testo, inoltre, l’autore triestino riporta fenomeni di rimozione, di sublimazione, d’introiezione, di rovesciamento dei dati, mentre in Una vita Alfonso aveva dato vita a comportamenti regressivi e a scelte d’isolamento. Caratteristico, in particolare, è il meccanismo della denegazione con cui Emilio cancella dalla coscienza le verità scomode, che non può ammettere senza vergognarsene. Centrale diventa anche il sogno compensatorio, derivante dall’esperienza negativa. Persino la letteratura acquista una simile funzione: Emilio, infatti, va incontro all’arte con lo stesso desiderio di oblio e gratificazione che spinge Amalia a drogarsi con l’etere, tant’è che la stesura del suo romanzo verrà interrotta quando il personaggio si renderà conto che nessuna occupazione letteraria avrebbe potuto sopprimere in lui il bisogno di rivedere la donna amata. Né è casuale che i temi chiave di Senilità si raccolgano intorno alla festa del Carnevale: esso prefigura il destino dei due Brentani, ma mentre Emilio riesce a ritornare al precedente regime di vita senile, Amalia non troverà più la quaresima. Il Carnevale, come le utopie di Emilio, il delirio di Amalia, la finzione e l’esibizionismo di Angiolina, è il momento in cui l’immaginazione trionfa sulla realtà e, nella finzione, è possibile realizzare i propri desideri proibiti (si tratta, dunque, della dialettica tra verità e menzogna propria dell’intera opera sveviana). Un periodo, tuttavia, transitorio – Svevo ne è consapevole – solo una breve parentesi nell’interminabile quaresima fatta di rinunce, doveri, vita apatica e ripetitiva.
Svevo giunge alla Coscienza di Zeno (1923) dopo un lungo silenzio, durato un quarto di secolo. La psicanalisi è assunta come cornice della vicenda, ma questo non impedisce all’autore triestino di guardarla con occhio critico, tanto che il romanzo si risolverà in una liquidazione pressoché totale delle dottrine freudiane. L’ironia che spesso accompagna i riferimenti alla pratica analitica conferma lo scetticismo di Svevo nei confronti tanto della teoria (che riconduce tutti i disturbi al complesso edipico), quanto della terapia (nel caso di Zeno decisamente fallimentare) e del metodo (postulando la sincerità del paziente). La confutazione viene resa esplicita solo nell’ultimo capitolo del romanzo, scritto in forma di diario. La coscienza di Zeno si configura, dunque, come un confronto serrato con la scienza freudiana della psiche. Questo fatto è ben visibile, ad esempio, nel confronto tra Zeno e suo padre, dove i termini del rapporto edipico stabiliti da Freud vengono rovesciati: chi teme di essere giudicato, sbeffeggiato, castrato, è il genitore, soggetto alla figura dominante e paurosa del figlio. Ma c’è di più: in quest’opera Svevo si libera anche dal rigido schematismo darwiniano che premiava i più forti condannando i più deboli; la vera vita – arriva a sostenere Svevo – sta nel difetto che spinge a migliorarsi: la superiorità di Zeno sta proprio nell’impetuoso conato al meglio che lo contraddistingue. Viene, dunque, riconsiderato il problema dello schlemihl. Chi nasce con un’inclinazione contemplativa e timida non deve sentirsi svantaggiato rispetto al lottatore, possedendo qualità sconosciute all’altro. Zeno, così, può uscire dal confronto con gli altri personaggi finalmente vincitore, dando prova di grandi risorse di adattamento, d’inventiva, di coraggio. Il personaggio sveviano non solo ha imparato ad accettare certi suoi limiti, ma ha scoperto di possedere un potenziale nascosto di risorse che neppure si sognava. La sua metamorfosi è avvenuta sul piano della coscienza. Capiamo, allora, anche la scelta della prima persona, l’autobiografia, per scrivere questo romanzo: Zeno, ormai, condivide del narratore onnisciente la saggezza, la serenità, e Svevo non ha più bisogno di prendere le distanze dal suo personaggio. Successo, malattia, salute, tutto ciò dipende da una convinzione e questa viene solo dalla scoperta di chi si è veramente, liberandosi da una presunta inferiorità. È quanto ci dice chiaramente Zeno nel suo diario, smentendo i quaderni destinati al dottor S., dove, leggendo la propria vita sulla scorta di un trattato di psicanalisi, si era rappresentato affetto dal complesso d’Edipo. In quei quaderni Zeno ha sì raccontato la sua vita, ma in controluce, all’insegna della nevrosi. Solo nell’ultimo capitolo affiora l’autentica personalità di Zeno, ragion per cui – suggerisce Langella – il romanzo andrebbe letto a ritroso. Solo al termine ci accorgiamo che il personaggio sveviano è finalmente salito in cattedra.
Il capitolo conclusivo della monografia è dedicato all’ultima grande stagione creativa di Svevo, contrassegnata dalla stesura di alcuni lunghi e importanti racconti (come Una burla riuscita, Corto viaggio sentimentale, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla), di una commedia (La rigenerazione) e soprattutto del cosiddetto “quarto romanzo”, ovvero Il vegliardo, interrotto per la morte dell’autore, vittima di un incidente stradale, nel 1928. Ma su questa specifica stagione Langella è tornato in maniera di gran lunga più analitica e con interpretazioni ancor più originali e convincenti in un libro successivo, Il tempo cristallizzato, cui si rinvia.
G.V.